Identità ecologiche e mondi possibili. Quando la Natura è un gioco di ruolo.

Creato il 23 febbraio 2013 da Greeno @greeno_com

di Eleonora Chiais 

In principio fu il serpente. Poi, secondo ogni biblica previsione, arrivò la mela. Naturalmente morsicata. Sono passati almeno vent’anni da quando, emulo in formato tascabile del noto videogioco degli anni Settanta, “Snake” sbarcò sui dispositivi mobili portando all’esasperazione giocatori di ogni età alle prese con le tragicomiche avventure di un vermetto di pixel intento a mangiare pezzi sparsi di se’ stesso sullo schermo per potersi allungare. Scatenando un’autentica rivoluzione. Le regole di quel gioco sono note a tutti così come le sue modalità, ma quello che in questa sede interessa maggiormente è la novità apportata dalla possibilità che un videogioco trovi in un dispositivo pensato per tutt’altro utilizzo il suo luogo di attuazione. E da allora la storia dei videogiochi per dispositivi mobili (nati con una finalità differente) è stata ricca di esempi di maggiore e minore successo e di maggiore o minor diffusione.

Recentemente nella semiosfera “green friendly” in cui tutto sommato ci troviamo ad essere inseriti, si è però assistito ad una innovazione anche nel fronte dei videogiochi per mobile che si sono “verdizzati”.

Da “FarmVille” ad “Hay Day”: essere Michelle Obama in un click

Non è un caso se “FarmVille”, il primo esempio di gioco in verde universalmente noto, ha sulla sua carta d’identità la stessa data di nascita (2009) dell’orticello fiorito della Casa Bianca frutto delle amorevoli cure di Michelle Obama: mentre il mondo guardava con unanime compiacimento al pollice verde della First Lady la software-house californiana Zynga creava, infatti, su Facebook il supporto virtuale per rendere ogni cittadino della rete e della vita un provetto agricoltore in formato 2.0.

 Sosteneva, in tempi non sospetti, il filosofo americano George Herbert Mead che il «gioco è un adattamento a un mondo che non c’è», un’affermazione quanto mai calzante se pensiamo che, in assenza di ettari coltivabili, una semplice connessione Internet ci può permettere di attualizzare un ritorno alla natura, seppur virtuale. Ecco dunque realizzato quel mimetismo già postulato da Roger Caillois che permette ai giocatori di mascherarsi (virtualmente) da agricoltori realizzando così uno di quei “giochi di simulacro” così ben descritti dal sociologo francese.

Ma il caso di FarmVille è interessante ai nostri fini anche per un altro motivo e cioè il grado di parentela che lo lega ad un tormentone dei giorni nostri: “Hay Day”.

Quarto nella classifica di questi giorni dei giochi più scaricati, “Hay Day” riproduce la formula (vincente) del suo antenato “FarmVille” offrendo ai giocatori la possibilità di vestire i panni dell’agricoltore curando la propria fattoria tra mucche da sfamare per ottenere latte fresco (e derivati), campi da seminare per ottenere un raccolto e maiali sempre sorridenti che, nel giro di qualche ora, ingrassano a dismisura per finire (per mano del contadino virtuale) in una sorta di doccia dalla quale rinascono felici dopo aver smaltito la pancetta in eccesso (che naturalmente diventa un gustoso insaccato di pixel senza causare spargimenti di sangue animale). Ma in più il gioco si pratica socialmente nella misura in cui, come già per “FarmVille”, il raggiungimento dei propri obiettivi viene condiviso con i propri “amici” sui social network.

Ecco quindi che “Hay Day” diventa un gioco di ruolo a tutti gli effetti che, nonostante la sua a-corporeità, inserisce i giocatori in un mondo comune all’interno del quale ciascuno è informato dei traguardi (ma anche delle necessità) altrui. In questo senso il ritorno alla natura è un tema preponderante: da un lato perché l’abilità manuale dell’agricoltore è passibile di un giudizio sociale (mediato) e dall’altro perché la creazione di questo mondo parallelo e fittizio crea, nei pensieri di chi pratica il gioco, un mondo fittizio simile ad un paradiso naturale.

Insomma d’accordo con Piaget, che riconosce al gioco una funzione centrale nello sviluppo di una sfera cognitiva personale e della personalità, possiamo dire che giochi di questo genere possano addirittura creare personalità altre. Queste naturalmente saranno fittizie ma si attualizzeranno nel compimento del loro programma narrativo che, in realtà, sarà il programma narrativo del gioco.

Visti però i molteplici obiettivi a breve termine che il gioco propone (e che, oltretutto, possono serenamente essere ignorati) i programmi narrativi si moltiplicheranno andando a confluire in un macro programma potenzialmente infinito. Inutile, e forse un po’ banale, fermarsi qui a riflettere sulla presenza (che comunque non si può non notare) di molte delle funzioni proppiane e degli attanti /attori rappresentati via via in forme diverse ma che possono essere anche persone in carne ed ossa come gli “aiutanti” (altri giocatori reali) che offrono nel “negozio sulla strada” i materiali che mancano al giocatore per poter raggiungere i propri obiettivi.

Coltivo dunque sono, la natura come virtù

Sostiene il semiologo palermitano Francesco Mangiapane che i giochi “social” sono molto amati perché «generano una ricaduta positiva sull’identità del giocatore». Giocatore che diventa, proprio attraverso il gioco, “virtuoso” per dirla con le parole di Aristotele.

Ecco quindi che uno scopo virtuoso come un ritorno alla natura diventa la virtù conseguibile attraverso giochi di questo genere ed ecco anche che la partecipazione sociale che aiuta a raggiungere gli scopi prefissati può essere letta come un’azione collettiva di ritorno alla natura. Seppure una natura di pixel: coltivo dunque sono.


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