di Iannozzi Giuseppe
In piazza Alimonda un ragazzo era caduto: freddato al primo colpo. E la sua testa addormentata per l’eternità in una pozza di rosso sangue. A Fernando tremavano le gambe: l’aveva visto il colpo, l’aveva visto partire e uccidere. Poi mille braccia l’avevano catturato per trascinarlo lontano, con la forza. Gli orecchi gli fischiavano. Impossibile contenere la rabbia seppellita nello stomaco: vomitò mentre veniva trascinato via, mentre la vista gli si annebbiava sotto i colpi dei neri manganelli.
* * *
Gabriel restava con le spalle incollate alla barca arrovesciata, mentre le dita dei piedi scavavano nella sabbia odorosa di sale e ancora calda di quel sole che l’aveva battuta per tutto il giorno. In cielo gli occhi seguivano la spezzata rotta, quella di un solitario gabbiano in volo: bianco come le nuvole, fra di esse si perdeva tentando nervose acrobazie alari.
Stancamente si alzò da terra: con gli occhi ridotti a due fessure lasciò indugiare lo sguardo tra cielo e mare, cercando di andare oltre l’orizzonte. Sputò nella sabbia un grumo di catarro grigio, poi volse lo sguardo al di là della spiaggia per incontrare delle vecchie catapecchie di legno mangiate dal vento, corrose dal sale.
Quando quella notte Gabriel sentì bussare e gridare; comprese subito che era stato sepolto vivo. Lo avevano portato di corsa nel capanno adibito a ospedale, ma Ernesto aveva già il petto basso, senza più un respiro o una bolla d’aria dentro; e subito l’avevano seppellito nel cimitero senza né un prete né una preghiera, perché il prete era morto assassinato qualche mese prima e le preghiere la gente non le sapeva. Fu seppellito e basta: gli piantarono su una croce di legno, una di quelle belle grosse, e qualcuno si fece il segno grattando di gola un ‘Gesù!’ e basta.
Gabriel si alzò dal suo giaciglio di paglia e si mise a sedere tenendosi la testa fra le mani: ‘Doveva accadere, non poteva essere diversamente!’ Adesso gli sarebbe toccato di uscire fuori, di disseppellire il morto che morto non era. In fondo non gli dispiaceva un po’ di moto notturno, ma l’idea di doversi poi sorbire una probabile partaccia di Ernesto gli metteva paura rossa nel budello. Alla fine si decise, uscì all’aperto, incontrò lo sguardo spietato delle stelle con il loro lucore perfetto: sospirò e mosse il piede verso il camposanto.
Una volta arrivato, dopo due minuti appena di cammino, si sentì improvvisamente triste: non ci aveva mai fatto caso, ma i morti riposavano per l’eternità a un tiro di schioppo dal suo uscio domestico. Resosi conto di questa verità, l’animo gli si seppellì in un istinto di rivolta: ‘E se lo lasciassi morire? Cazzo, è notte, ci sono le stelle, e lui grida come un ossesso. Dovrei lasciarlo sottoterra, ma….’ Fu un urlo di Ernesto, un urlo terribile a non farlo indugiare ulteriormente. Davanti alla grossa croce di legno, Gabriel provò un sentimento strano, di profanazione; ma fu un altro urlo a fargli perdere la bussola dei suoi tentennamenti, e con la sola forza delle braccia sfilò la croce dal terreno gettandola via ma in mezzo a croci che erano lì da tanto, tanto tempo. Scavò nella terra a mani nude, con gran foga: dopo un’ora le unghie toccarono il legno della cassa da morto. Si rizzò in piedi e respirò a pieni polmoni: sotto la luce delle stelle rimase per alcuni brevi istanti a fissarsi le unghie distrutte, sanguinanti. Ernesto gli gridava di fare presto. Gabriel sputò sulla tomba un bolo di magra saliva impastata di nicotina, poi si guardò intorno: adocchiò un asse di legno che avrebbe fatto al caso suo. Fece due passi e lo raccolse: era un pezzo di legno robusto e con quello cominciò a picchiare sulle tavole della cassa, ma niente. Allora provò a forzare le commessure: piantò l’asse, che era ben acuminata, tra due tavole della bara, e una saltò subito. Dopo fu un gioco da ragazzi, o quasi, far saltare anche le altre.
Ernesto era pallido e sporco, ma tutto sommato non era più brutto del solito. Uscì dalla fossa con naturalezza, come se stesse recitando una parte che aveva provato più e più volte, respirò a pieni polmoni l’aria della notte, poi diede una pacca sulle spalle di Gabriel, che col dorso della mano si stava asciugando la fronte madida di sudore.
“Volevi forse lasciarmi a marcire?”, lo rimproverò bonariamente.
Gabriel scosse il capo e non disse nulla per tema di una partaccia, allora Ernesto gli sorrise: il Comandante aveva un bel modo di sorridere.
Restarono in silenzio, in un faccia a faccia. Sì, aveva un sorriso che ispirava fiducia.
“Vieni con me!” Gabriel non si fece ripetere l’ordine una seconda volta e seguì il Comandante.
Arrivarono sino alla spiaggia e presero posto sulla sabbia.
Sdraiati sulla schiena, con gli occhi puntati al cielo, i due uomini presero presto a parlare.
“Non è cambiato poi molto, non è forse così?”
”Ci arrangiamo, se è questo che vuoi sapere.”
Ernesto tossì: “La Fontana delle Lacrime, lì è stato assassinato.”
“Ci pensi ancora.” Ma non era una domanda, solo una constatazione.
“Sì, ancora.”, disse il Comandante con voce rotta: “non doveva finire a quel modo.”
“Le stelle sembrano proiettili luminosi.”
“Come poeta sei pessimo, ma scavi bene e in fretta. La nostra terra la conosci bene.”
“E’ quasi la prima luce del nuovo dì.”
“No, le stelle sono ancora il cielo, sono solo leggermente pallide. Non è ancora il mattino.” E sorrise a quel tappeto di spietate stelle.
Si svegliò che aveva un gran cerchio alla testa. Il sole era appena emerso dal mare: presto i pescatori sarebbero accorsi sulla spiaggia per prendere le barche e tentare la sorte con la pesca. In mano teneva un basco: se lo calcò sul capo e l’emicrania gli si addormentò. Poi si alzò in piedi, scrutò il cielo, respirò l’aria che sapeva di sale e di poca fortuna, e mosse il passo verso alcune catapecchie, perché lì c’era anche la sua.
* * *
“Dove siamo?”, biasciò debolmente Fernando: “dove cazzo siamo?”
Lucilla ingoiò amaro, si fece forza e gli rispose: “In gattabuia.”
“Che è successo…?” Ma mentre formulava la domanda ogni particolare gli tornò alla mente.
“…in gattabuia…”, ripeté fra i singhiozzi la ragazza. “O, Fernando… Fernando… perché?”
Il ragazzo si passò la lingua sulle labbra aride: sapevano ancora di acido, di vomito, di rabbia. La fissò negli occhi senza tentare di sollevare la testa dal grembo di lei: “Ho sognato. Ho sognato che era tornato.” Non disse altro.
Lucilla continuò a piangere: accarezzava la testa del ragazzo che si era seppellito in un altro profondo deliquio.
N.B.: Il racconto è tratto dal volume Morte all’alba