Quattro giorni di inizio estate, da giovedì a domenica, pieni di incontri, musica e parole. In una bella cittadina del nord ovest, ex capitale dell’impresa italiana all’avanguardia come centro di ricerca e di sviluppo tecnologico, si sono incontrati editori, lettori, scrittori, musicisti e attori.
Tirare le somme di un’esperienza come quella di Ivrea e della Grande Invasione – per i maniaci di twitter l’#invasione – organizzata da una casa editrice come minimum fax in una cittadina certamente non avvezza a eventi come questo, non è cosa facile. Specie perché sono riuscita a seguire soltanto due giorni, e nemmeno per intero; ma alcuni incontri visti in quei due giorni sono stati comunque paradigmatici dello spirito che anima il festival romano-eporediese.
Da sinistra Antonio Sellerio, Giuseppe Laterza, Beniamino De' Liguori, Gian Carlo Ferretti, Ernesto Ferrero nel corso dell'incontro "Leggere per mestiere. La casa editrice come comunità"
Di buoni ci sono gli intenti, certamente. Primo, portare – da Roma, capitale dell’editora indipendente – in una zona, come quella piemontese, un evento culturale a tutto tondo, che abbracciasse la musica, la scrittura, il fumetto e l’arte visiva in un contenitore multiforme e variegato, non a compartimenti stagni ma fondendo le discipline. Secondo, il voler mettere a contatto una certa idea di editoria, quella “indie” romana, non solo con quella tradizionale del nord Italia, ma anche quella più locale – eppure visionaria e all’avanguardia – come le Edizioni di Comunità. In tal senso, è stato esemplare il seguitissimo incontro sulla lettura editoriale, e sui meccanismi di scelta di un manoscritto, che si è tenuto sabato pomeriggio. C’erano il “vecchio” editore (Ernesto Ferrero, ex einaudiano ora direttore del Salone di Torino), Antonio Sellerio, Giuseppe Laterza, che lavorano nelle omonime e storiche case editrici di Palermo e di Bari, e il più giovane Beniamino De’ Liguori, che sta riprendendo il lavoro delle già citate Edizioni di Comunità, fondata nel 1946 da Adriano Olivetti. Si respirava contemporaneamente lo slancio del nuovo e il legame con il vecchio modo di fare editoria, quello einaudiano che non badava al soldo e quello più attuale, costretto a fare i conti con costi e benefici. A questo incontro, ricco di spunti di riflessione, Ferrero ha affermato che «negli anni Sessanta, se si parlava di vendite in una riunione di redazione si veniva automaticamente esclusi». Battuta alla quale ha replicato però Laterza: «Se è vero che certi libri vanno pubblicati indipendentemente dal fatto che vendano perché di qualità, il pubblico non va ignorato, altrimenti si pubblica per autocelebrazione». Né l’editore pugliese risparmia una frecciatina a certa critica snob e supponente: «Quando leggo Arbasino su Repubblica, mi capita di non capirci niente, e mi chiedo se il critico pensi davvero ai propri lettori». Mentre De’ Liguori ha affermato che, nel rilanciare la storica casa editrice di Olivetti, ha deciso di seguire una linea di marketing ben precisa: quella di vendere i libri scritti dall’imprenditore piemontese «come fossero appena usciti, del tutto contemporanei», impresa non impossibile, mi viene da pensare, data l’attualità dei suoi titoli (Democrazia senza partiti, per esempio, che a dispetto del titolo è del 1949). E a fine incontro, Marco Cassini (minimum fax) ha avuto a dire: «Certamente è condivisibile il fatto di dover pensare al nostro pubblico quando vogliamo pubblicare. Tuttavia, ci è capitato in minimum fax di pubblicare libri che sapevamo avrebbero venduto poco, solo perché erano parte dell’identità del marchio». Un’operazione di immagine e di sostanza, quindi, prima ancora che commerciale, un modo per legarsi ai lettori forti in maniera più viscerale.
Luca Raffaelli parla della storia del fumetto italiano
La grande invasione è stata anche fumetto. Alle dieci di mattina, una platea interessata ha riempito per tre incontri la sala Santa Marta nell’omonima chiesa sconsacrata eporediese, dove Luca Raffaelli disegnava a parole la storia del fumetto italiano, a partire da Jacovitti e Pazienza, per continuare – sforando l’orario – Dylan Dog, Maus, per finire con Gipi e Zerocalcare, icone contemporanee di incubi e paure generazionali su carta.
È stata anche musica, di qualità. Il cantautorato d’autore che ha radunato Dente, Cosmo, Brunori Sas, Niccolò Carnesi, Di martino e L’Orso, che a fine concerto si sono riuniti per cantare una canzone di ognuno, ma insieme. È stato anche attenzione al lavoro del traduttore, con due incontri con Martina Testa traduttrice di David Foster Wallace e Ilide Carmignani traduttrice di Bolaño (2666) per Adelphi.
Intenso anche Fabrizio Gifuni, che in Autobiografia di una nazione ha tenuto sabato sera una lectio magistralis su Carlo Emilio Gadda, mettendone in rilievo l’umanità e l’ironia, rendendo un autore generalmente ritenuto “ostico” dal grande pubblico in realtà uno sguardo disincantato sul mondo. Autoironico e dall’humour tutto cremonese Andrea Cisi. Il venerdì sera è stato letto dall’attore Giuseppe Battiston in notturna, il sabato ha tenuto una performance teatrale-musicale con un musicista e un attore (i “2 Lorenzi”).
Da sinistra Fabio Stassi, Jacopo Cirillo, Alessio Torino, Paolo Cognetti
Interessante anche l’incontro a quattro tra Paolo Cognetti, Fabio Stassi e Alessio Torino, moderati dall’autore di Topolino e direttore del magazine Finzioni Jacopo Cirillo, a parlare di personaggi, dei propri e di quelli di altri autori, che influenzano le loro letture e scritture. Più accademico e talvolta difficile da seguire il dibattito storico sul “secolo breve” con Gregorio Magini e Vanni Santoni (Scrittura Industriale Collettiva), Carlo D’Amicis voce di Farenheit (Radio3) e Giorgio Vasta, autore del romanzo sul terrorismo “messo in pratica” da dei ragazzini Il tempo materiale.
A chiudere il festival, la discreta Isabella Ragonese, accompagnata dalla chitarra di Cosmo ha letto, in una sala dell’Associazione Culturale Serra, il libro di Paolo Cognetti Sofia veste sempre di nero, candidato al Premio Strega.
Se si può però muovere un rimprovero a questi incontri, è quello, forse, di autoreferenzialità: non certamente nei singoli autori e i temi proposti, tutti validissimi, quanto per il fatto che si trattava quasi esclusivamente di autori minimum fax. Certo, una casa editrice così affermata può permettersi anche questi “vezzi”, ricca di contenuti e con un progetto culturale così importante com’è. Ma – e qui parlo di un mio desiderio, forse, anche se credo che molti la penseranno allo stesso modo – sarebbe stato probabilmente un segno di maggior coesione con il territorio invitare anche altri editori. Rimane, comunque, un’iniziativa piena di spunti e bellissima, che ci auguriamo di rivedere a Ivrea, o magari in qualche altra dimenticata città del nord.