Quello che a distanza di diversi anni mi porto ancora dietro del periodo vissuto nella capitale inglese sono immagini, pensieri, parole e persone – con le quale ho condiviso poche ore o mesi interi - che riaffiorano prepotentemente tra i ricordi, come flashback improvvisi..
Ricordo che è meglio non cimentarsi nella preparazione di un tiramisù perché il formaggio fresco saprà sempre di FORMAGGIO, nonostante l’aggiunta di uova e zucchero, e il formaggio a me nemmeno piace.
che il capotreno che annuncia we are approaching the Lovely Victoria lo può fare con un entusiasmo tale che mi fa iniziare la giornata con la stessa allegria.
che posso ingrassare 10 chili in pochi mesi mangiando tutti i giorni fuori per il solo gusto di provare le cucine di tutto il mondo, rendendomene conto solo quando l’unico commento che mio fratello riesce a fare guardando le foto che gli ho mandato è sulle dimensioni del mio fondoschiena.
che posso chiarire che non parlo greco dopo che il giardiniere ellenico mi ha parlato per cinque minuti e sentirmi rispondere che in realtà stava parlando in inglese.
che è meglio scendere le scale con calma, se ricoperte di moquette, perché altrimenti al piano di sotto ci arrivo sdraiata.
che mi posso sentire più italiana e più orgogliosa di esserlo, quando sono lontana da casa e realizzo che in fin dei conti la mia italianità, tra le altre cose, mi aiuta ad essere smart, rimanendo comunque nella legalità.
che è meglio evitare di commentare a voce alta l’abbigliamento della ragazza seduta davanti a me nella metro, perché potrebbe essere italiana e aver capito tutto e farmi sentire piccola piccola.
che se all’improvviso tutti i miei amici dall’Italia iniziano a scrivermi per chiedermi come sto e subito dopo il mio telefono non funziona più, non è per qualche strana congiunzione astrale, e che in fin dei conti il tipo sul bus che mi raccontava di cinque esplosioni non era poi cosi tanto ubriaco, ma , piuttosto, era stato bravo il bus driver a consigliarmi di tornare a casa mantenendo il sorriso sulle labbra senza farmi capire nulla.
che quando inizio a legger Brick Lane a distanza di anni, mi sale il bisogno di sentire la stessa voce che quella mattina mi ha spiegato cosa fosse successo e che per fortuna l’ha fatto mentre rientravo in casa, perché dal quel momento in poi le gambe hanno iniziato a tremare.
che quando torno a casa in Italia ed esco il sabato sera, posso anche non indossare i tacchi e azzardare abbinamenti improbabili giustificando il tutto con l’ultima moda londinese del momento.
che posso incontrare lo stesso sconosciuto per tre mattine di seguito, in una stazione di passaggio o su un treno della metropolitana, anche in una città di 10 milioni di persone.
che posso parlare di rapporti tra uomo e donna, davanti ad una birra, con un uomo afghano che potrebbe essere mio padre, con la stessa serenità con cui si commenta l’uso smodato del get nella lingua inglese, lo stesso uomo che dopo pochi anni è andato a rappresentare il proprio Paese alle Nazioni Unite e che non si è fatto negare al telefono quando ero in vacanza a New York.
che posso passare una serata d’agosto sul tetto di una casa tra birra e chiacchiere, a guardare le stelle, con la mia amica italiana, uno zimbabwiano, due portoghesi che di mestiere fanno i giocolieri, un afghano, una francese e una polacca che l’inglese lo mima e non lo parla, e tornare a casa pensando che QUELLA fosse la serata più bella della mia vita.