Se è vero che la letteratura interpreta e riflette in vari modi la realtà, e se è vero che le battaglie culturali vanno spesso di pari passo con quelle reali, non è difficile spiegare la nascita e il successo, in Sudamerica, della cosiddetta “narcoletteratura”. Villalobos, in questo breve, acclamatissimo romanzo di esordio, guarda alla piaga del narcotraffico messicano con occhi diversi, con gli occhi di un bambino. Il ritmo della narrazione è proprio quello che ci aspetteremmo se ascoltassimo un bambino raccontare: pensieri brevi ed eterogenei, avvenimenti specifici e del tutto autoreferenziali, linguaggio semplice, in cui le parole preferite ricorrono costantemente (nel mondo di Tochtli, tutto è sordido e nefasto oppure lindo, o patetico, o fulminante). L’idea, non originale in senso assoluto ma sicuramente innovativa nel filone letterario di cui il romanzo fa parte, è in questo caso geniale perché consente di eliminare i moralismi facili e di giungere all’essenza delle cose. Lo sguardo di Tochtli non è innocente e inconsapevole, ma attento, critico, spietatamente onesto. Molte atrocità sono entrate a far parte del suo quotidiano, alcune del suo concetto di normalità, ma non tutto lo convince; Tochtli coglie le contraddizioni, interpreta i cambiamenti che avverte intorno a sé e gli atteggiamenti di Yolcaut, suo padre, il quale riesce a fuggire con relativa facilità alla giustizia messicana, ma fallisce miseramente nel tentativo di sottrarsi anche al giudizio del figlio.
Marina Lomunno
Juan Pablo Villalobos, Il bambino che collezionava parole, Einaudi, 78 pp., € 10,00.