Giovedì 10 Marzo 2011 23:45 Scritto da Anna Valentina Farina
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Tanti anni fa, quando ero ancora un bambino, il mio caro nonno mi portava in funicolare tutte le mattine. Un bel giorno salì un ragazzino con una vecchissima giacca verde. Sulle spalle portava una fisarmonica rossa. I fantastici simboli dorati incisi sullo strumento mi fecero subito pensare che fosse magico.
Appena la funicolare partì, il ragazzino cominciò a suonare: le note erano dolcissime, ma quando volavano via lasciavano il cuore triste. Man mano che il bambino suonava mi accorgevo che la sua melodia era come una bacchetta magica che faceva sparire le pareti del vagone, i sedili, le persone. Anche il nonno era sparito! Mi ritrovai in una bellissima vallata attraversata da un sinuoso sentiero dove, camminando, il bambino continuava a suonare la sua prodigiosa fisarmonica, sicuro che lo seguissi. Camminai e ben presto mi ritrovai davanti ad una casa. C’era il tetto di tegole rosse, le finestre e le porte di legno verde, c’erano i pavimenti e i mobili, ma non c’erano le mura! "Che strano!" pensai.
Quando arrivammo, il bambino mi fece cenno di bussare. Bussai. Il portone si aprì e…
«Nonno!» esclamai.
Mi abbracciò con un bellissimo sorriso, mi afferrò la mano e mi condusse nella casa senza mura. Il bambino ci seguiva suonando una splendida melodia.
«Cosa ci fai qui, nonno? » gli chiesi.
«Come cosa ci faccio? Non si vede? » rispose lui.
«Ehm…veramente no.»
«Sta’ attento!» borbottò e andò a sedersi su una grandissima sedia. Arrivarono altri bambini e saltellando gli mostrarono dei mattoni.
«Guarda! Ne abbiamo presi altri!»
«Bravissimi! Andate in cucina dopo aver fatto quello che sapete…» disse ammiccando.
Mi avvicinai alla sedia e chiesi che senso avesse tutta quella faccenda. Lui continuò a borbottare qualcosa che io non capii.
Il bambino con la fisarmonica mi fece cenno di seguirlo. Camminammo a lungo. Stavolta la melodia che usciva dalla fisarmonica era un po’ più triste. Arrivammo ad una caverna, entrando vidi che da lì cominciava una scala di pietra che scendeva nel sottosuolo. Scendemmo, mentre il bambino continuava a suonare. Improvvisamente la scala s’interruppe e ci trovammo di fronte ad un precipizio. Dall’altra parte del precipizio c’era una porta. Il bambino, continuando a suonare, mise un piede nel vuoto e camminò come se stesse camminando su una superficie invisibile. Tranquillamente mi fece cenno di seguirlo.
«Ehi! Ma come faccio? Torna subito qui!»
Indietro non si poteva tornare. Tutto il percorso che avevamo fatto fino a quel momento, era come fissato in una fotografia e non poteva essere più ripetuto. Si poteva solo andare avanti, ma c’era il vuoto e poi la porta.
«Che cosa significa tutto questo? Come faccio? Non c’è una scala!» urlai.
Il bambino si sedette accanto alla porta e si rimise a suonare una delle sue fantastiche melodie.
«Vuoi rispondere? Come hai fatto? Aiutami a passare!»
«Io ho suonato il mio strumento. Suona il tuo e passa...» disse seccato.
«Il mio? Quale?»
«Suona e passa…»
Tremendamente arrabbiato mi sedetti sul bordo del precipizio e cominciai a piangere. Quando la disperazione mi lasciò il tempo per respirare, cominciai a guardare il precipizio. Come sarebbe stato bello se le mie lacrime si fossero trasformate in gradini. Ne avevo versate così tante! Piano piano dal fondo del precipizio cominciarono ad emergere… dei gradini! Erano trasparenti e scintillavano!
«Cosa… cosa sta succedendo?» gridai quasi spaventato.
«Oh! Finalmente. Te l’avevo detto di suonare e passare!»
«Ma io non ho suonato!»
«Sì, lo hai fatto. Muoviti che ho fretta!»
Poggiai i piedi sui gradini e passai. Ero passato sulle mie lacrime, ma non avevo suonato un bel niente! Ci trovammo davanti alla porta. Naturalmente era chiusa. Io guardai il mio accompagnatore e lui, suonando, mi disse:
«Le porte sono fatte per essere aperte… Suona e passa!».
Odiavo quel bambino! Quando parlava senza suonare si esprimeva in una lingua sconosciuta, solo se si accompagnava con la fisarmonica io riuscivo a capirlo. Suonò, la porta si aprì e lui passò. Io provai a passare con lui, ma ci sbattei il naso. Dall'altro lato sentivo quella cantilena accompagnata dalla musica “suona e passa…suona e passa…suona e passa”. Cominciai a prendere a calci la porta, ma mi feci solo un gran male! Indietro non potevo tornare. Fissai la porta. I pugni e i calci non l’avevano scalfita minimamente. Cominciai a fissarla e la disperazione cresceva. La sentivo nelle mani, nei piedi: era una forza reale! Sarebbe stato bello poter prendere la mia disperazione e farla diventare materia da plasmare: avrei potuto trasformarla in una chiave. Piano piano dalle mie mani e dai miei piedi uscirono dei filamenti di ferro che davanti a me formarono proprio una chiave. L’afferrai e aprii la porta! Non potevo crederci!
«Te l’avevo detto…suona e passa» esclamò il ragazzino.
La porta si aprì in una stanza. Vuota… (continua)
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