Per me, per qualche giorno la rabbia è stata blu, indaco per la precisione.
Ho tentennato un po’ prima di convincermi a leggere Il bambino indaco di Marco Franzoso.
La lettura della pagina di presentazione sul sito dell’editore Einaudi piuttosto che invogliarmi mi aveva agitato ancora prima di avere il libro tra le mani. Come se il libro scottasse, come se avessi avuto la certezza, ancor prima di aprirlo, che quella storia mi avrebbe fatto male.
È ovvio: raccontare ad una madre di un bambino che soffre non è il massimo che si possa fare per rasserenarle l’animo (almeno con me non funziona), raccontarle di un bambino che soffre per colpa, forse, della madre è ancora peggio (o almeno per me lo è stato).
La soluzione questa volta, e senza che fino alla fine me ne rendessi conto, è stata proprio in quelle due parole: colpa e forse. Per merito della seconda mi sono convinta a leggere il libro di Franzoso, per via della prima ho passato due giorni a rimuginarci sopra senza capire perché… ma andiamo con ordine.
Il bambino indaco è la storia di una coppia, di un amore, di un bambino, di un sistema, di un problema e di come sia a volte tanto difficile chiedere aiuto al momento giusto o alle persone giuste, ma questo l’ho capito solo alla fine del libro e solo dopo averne discusso con il mio saggio tutor di tirocinio, psicologo sistemico relazionale. Mentre leggevo il libro, infatti, per me, Franzoso parlava di una madre folle, di un padre vigliacco, di un sistema inceppato e, a contorno di tutto, della rabbia che pagina dopo pagina cresceva dentro di me. Ho chiuso il libro con la ferma convinzione che fosse tutto chiarissimo: lei è pazza, lui non ha voluto fare nulla in tempo, la burocrazia men che meno, la nonna è l’unica che, alla fine, si è fatta carico di una scelta, della responsabilità di salvare quel bambino. E ho macinato rabbia, rabbia e ancora rabbia per questa storia e questi personaggi che mi erano entrati così sottilmente sotto pelle da disturbarmi il sonno.
Perché?
Sentivo il bisogno di parlarne, di raccontare a tutti questa storia di follia e irresponsabilità e quando alla fine, casualmente, l’ho fatto con il mio saggio collega, la sua domanda è stata “Si, ma a te cosa è che ti rode?”. Mi rodeva l’idea che nessuno avesse visto quella che, ai miei occhi, era la soluzione fin dall’inizio, quella che, sempre nella mia mente, sarebbe stata la soluzione giusta per evitare tutto quanto… ma io… alla fine… chi sono per giudicare, per stabilire chi ha colpe, chi ha responsabilità, chi non se le è volute prendere?
Qui prodest?
A chi serve poter dire lei è pazza, lui è un vigliacco, gli altri sono indifferenti…
A chi serve giudicare?
E lì che ho capito il mio problema: il giudizio. La condanna. La ricerca del colpevole.
Per pulire le coscienze, placare gli animi, pensare che se si estirpa il male poi tutto andrà per il meglio “e vissero tutti felici e contenti”.
Cercavo la strada per intervenire e avevo già emanato giudizio e condanna.
Impossibile intervenire in questo modo. Impossibile intervenire senza considerare l’intero sistema. La colpa non è mai di uno. E il giudicare non è mai un buon punto di partenza per aiutare qualcuno. Dovrei ben saperlo io che della relazione d’aiuto sto facendone un mestiere. La colpa, la responsabilità, è nel sistema, tra i suoi componenti, le loro relazioni. E la follia è tanto in chi la vive quanto negli occhi di chi la vede e vorrebbe risolverla negandola o allontanandola.
Ho capito da dove veniva la rabbia alla fine: dalla presunzione di aver capito e di non poter agire, risolvere.
E invece non avevo capito nulla, avevo solo giudicato.
Nota: rileggerlo un giorno, quando avrò raggiunto la saggezza e la capacità di guardare il mondo senza la presunzione di conoscerlo.