Da uomo libero, se mai è stato sia l’uno che l’altro, la sua arroganza vestita di chiffon, il riferimento ambiguo al machismo, la passione per la violenza espressa attraverso l’adesione continua ai più banali miti fascisti, ne facevano una specie di ras da bordello, uno squalo dai denti di velluto nell’acquario del berlusconismo. Invece è solo un codardino del quartierino.
E ora il suo ex amante, Fabrizio Corona fa l’avvoltoio di buon cuore, sfruttandone le disgrazie per tornare alla ribalta: ci prova con una lettera, scritta da altri com’è fin troppo evidente dallo stile, in cui ne vanta la generosità. Al figlio degenere di Vittorio Corona, sfugge che quella non era prodigalità, ma solo lo scialo di chi viveva di un’economia parassitaria. Il parassita di Silvio e della degenerazione del Paese. Dice Corona, dalla profonda menzogna che attraverso come un sfregio l’Italia: ”Eravamo innocenti, ma forse eravamo diventati troppo potenti. E questo ci ha portato alla rovina”.
No, nulla di tutto questo, non c’era alcuna innocenza, ma solo indecenza, mancanza di senso del limite, inconsistenza umana. E anche adesso questo osceno vittimismo che lascia trasparire qualche dolente consapevolezza, non è che una squallida commedia, un copione suggerito da esperti di immagine.
Eppure anche la disonestà, l’ingiustizia, l’immoralità, l’insolenza nata e cresciuta dentro le protezioni del potere, non meritano Lele e gli altri: pure i vizi reclamano una qualche dignità, un qualche protervia che almeno non faccia calare le braghe al minimo inconveniente, pur all’interno di abitudini inveterate. No sono soltanto bambocci di potere, come gran parte dei burattini di Silvio.