Il banchetto delle beffe, ovvero le vere origini del bosco di Balsorano

Creato il 07 agosto 2012 da Cultura Salentina

©Pasquale Urso: litografia

Cronaca di una storia vera 

Vi racconto una storia è una storia vera; una storia che mi è stata raccontata, in un sonnacchioso pomeriggio d’estate, nel porticato della sua silenziosa dimora di Casamassella, dal mio grande, indimenticabile amico e maestro Florio Santini, che mi confidò di esserne venuto a conoscenza in modo del tutto casuale, sfogliando le consunte pagine del vecchio diario di un suo grande antenato, tal Agilulfo Santini, uomo d’armi e cronista di guerra, che nel 1816 comandava la scorta a servizio del Duca di Lucca e del Granduca di Toscana e che fu testimone diretto dei fatti.

Questo matrimonio s’ha da fare 

La vicenda riguarda il fastoso banchetto nuziale che si svolse nella prestigiosa cornice del Castello Piccolomini di Balsorano, il 22 luglio 1816, giornata dedicata a Santa Maria Maddalena, della quale la famiglia della sposa, i Principi di Pontecorvo, era devotissima…

Il matrimonio tra la dolcissima Principessa Diana De’ Gabrieli Bruno di Pontecorvo e il prode Cavaliere Guido il Rosso dei Conti d’Asburgo Lorena rappresentava un esempio eclatante di quella forte tendenza al processo di restaurazione del quale il Congresso di Vienna, appena un anno prima, aveva segnato una tappa di fondamentale importanza…

Peraltro, i due giovani sposi non si potevano certo definire come le povere vittime sacrificate dalla volontà delle rispettive famiglie in ragione di spregevoli giochi di potere, poiché Guido e Diana erano uniti da un sentimento molto forte d’amore e di rispetto.

I grandi preparativi e la fastosa cerimonia 

Il banchetto nuziale, invece, quello sì, era il momento giusto per la formalizzazione di nuove alleanze e per la fastosa affermazione del potere assoluto degli Stati… Assoluti, compresi anche i tanti regni, “regnetti” e granducati, che componevano il complesso mosaico dell’Italia preunitaria. Il prestigioso Castello Piccolomini di Balsorano era stato scelto con grande attenzione per la sua forma pentagonale, che avrebbe consentito una lussuosa dimora temporanea, con pari dignità, in ciascuna delle torri ai vertici, ai 5 Capi di Stato invitati alle nozze e al successivo banchetto.

Tutto era stato preparato con la massima cura e attenzione, al punto che la celebrazione delle nozze era stata affidata a Barnaba Niccolò Maria Luigi (in religione Gregorio) Chiaramonti, alias Papa Pio VII, il quale, da buon romagnolo, non aveva ovviamente declinato l’invito ad officiare le nozze, convinto soprattutto dalle leccornie elencate nel menù allegato.

La cerimonia nuziale, officiata nella splendida cornice dell’Abbazia di San Domenico Abate di Sora, si concluse verso le 10 e 30 del mattino di quella torrida giornata di luglio e tutti gli ospiti d’onore, con le loro sfolgoranti carrozze dorate, si diressero verso la rocca di Balsorano, che fu raggiunta in meno d’un paio d’ore.

L’ora del banchetto: tutti a tavola!

Gli invitati di estrazione più umile arrivarono subito dopo e, ben prima delle 13, tutte le grandi sale del banchetto erano colme di gente, al punto che il maestro di sala dispose la cottura delle deliziose omelette ripiene di ricotta di capra e salsiccia di cinghiale.

Alle 13,30 i fagottini erano pronti per essere serviti, ma degli sposi nemmeno l’ombra… Si narra che i due si fossero recati a Pescosolido da un famoso ritrattista per immortalare il fatidico giorno e che il pittore, noto perfezionista, li avesse trattenuti a lungo. Molto a lungo.

Intanto i “nostri” deliziosi manicaretti, lasciati colpevolmente esposti per ore ed ore al torrido sole di quella torrida giornata d’estate, finirono per essere aggrediti da qualche perfido (sebbene a  quei tempi ancora ignoto) batterio ad istantanea azione tossinfettiva intestinale (del tipo maremoto entero-colico) e cominciarono a covare un diabolico piano.

Alle ore 16,30 un applauso liberatorio accolse l’arrivo degli sposi e il maestro di sala, tirato un profondo sospiro di sollievo, diede il via alla distribuzione delle frittatine infagottate.

Una digestione ultrarapida

Alle 16,55, racconta Agilulfo Santini nel suo diario, dalle tavolate imbandite cominciarono ad alzarsi prima uno, poi dieci, poi 50 commensali, tutti con il volto congesto e le mani premute sul basso ventre: la “simpatica” tossinfezione alimentare cominciava a dare segno di sé…

Per quella fortuna tipica dei toscani (e dei lucchesi, in particolare) il buon Agilulfo odiava le omelette e ciò gli permise di fare una puntuale cronistoria della vicenda; non una vera e propria cronaca di guerra, anche se, in fondo, i temi in questione erano abbastanza affini, se non altro per i cupi rumori di guerra (colpi di mortaio, forse?) e dalle strazianti urla di dolore e di raccapriccio, che sembravano provenire da un non lontano settore delle macerie.

Verso le 17,10, la sala si era ormai completamente svuotata di gente, tutto il contrario dell’angusto e buio corridoio che conduceva ai vespasiani, dove i poveri commensali, nell’attesa, sembravano dimenarsi in danze scatenate, come avviene ai giovani dei XXI secoli nelle discoteche notturne.

Alle 17,15, il Capitano Agilulfo Santini fu testimone della reale e concreta esistenza della nemesi storica: a 3 dei capi di Stato che urlavano il loro diritto all’uso prioritario del vespasiano, rispose un fragoroso coro di pernacchie.

Alle 17,20, sempre lo stesso Agilulfo fu testimone del fatto che, davvero, talvolta non tutti i mali vengono per nuocere: al contrario del resto dei commensali, quasi asfissiati dal quel mefitico olezzo proveniente dai vespasiani, un’anziana suora carmelitana, evidentemente (e provvidenzialmente) del tutto anosmica, si chiedeva da dove provenisse quel delizioso profumo di frutti di bosco.

Alle 17,25, infine, Agilulfo fu testimone di un secondo esempio di nemesi storica. La vicenda riguarda il truce Hubertus Boksicich, ministro della pubblica (d)istruzione del Regno Lombardo-Veneto, il quale tentò di farsi strada a gomitate verso il vespasiano gridando: “Io sono il ministro della cultura”… alla qual frase un’anonima voce, dal fondo del corridoio, con una locuzione veneta contaminata, però, da un forte accento calabrese della zona della Locride replicò: “E allora, fio’, turate el cul!”.

Le conclusioni del diario di Agilulfo ci hanno fatto sapere poi che i 5 Capi di Stato, impossibilitati a raggiungere in tempo utile i servizi igienici delle rispettive torri, furono costretti ad usare, per le loro impellenti necessità, i rari e radi cespugli, a quell’epoca presenti intorno al castello.

Da quel giorno, tuttavia, per effetto di quel fantastico concime organico, prodotto originale (e non geneticamente modificato) dei principali potenti dell’epoca, la spoglia campagna intorno al Castello di Balsorano si popolò di alberi ad alto fusto e di una rigogliosa barriera di cespugli spinosi, dando vita ad un meraviglioso bosco.

Ma chi l’ha mai detto che dove passa un politico non cresce più nemmeno un filo d’erba?


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