Il gioco quindi è l’ambiente privilegiato in cui si sperimenta la propria capacità di mescolare realtà e fantasia, là dove la prima diventa fantastica e la seconda reale e tangibile, credibile.
C’è un albo, pubblicato in Italia qualche mese fa da Gallucci, che riesce a far immergere a tal punto l’ignaro lettore nella finzione del gioco messo in atto dal protagonista, che la sorpresa finale – lo shock che muove sia la meraviglia che il sorriso appagato – sta proprio nell’uscita improvvisa dallo scenario fantastico.
Con “Il barbaro” di Renato Moriconi si torna infatti immediatamente bambini, all’epoca in cui lo sprofondamento nella straordinaria dimensione del gioco è così assoluto da acquisire un surplus di credibilità perfino rispetto alla realtà. Il lettore di questo stupefacente silent book è indotto a credere per quasi la totalità del tempo di lettura di essere in un luogo seppure si trovi in un altro. E non certo perché l’autore tralasci qualche dettaglio che potrebbe indurlo a porsi domande, ma semplicemente perché, come nell’infanzia, quel luogo dell’”altrove” è più forte, ricco, calamitante.
Nella lettura de “Il barbaro” si devono necessariamente distinguere due momenti: il primo, irripetibile della prima lettura (se ancora non l’avete vissuto vi consiglio di non leggere questo articolo) e quello di tutte le altre successive.
La prima lettura si compie praticamente sotto incantesimo: si girano le pagine e si nota solo ciò che l’autore ha deciso di lasciarci notare. Dalla secondo in poi, rialzatici – divertiti ma un po’ ammaccati – dallo scivolamento repentino dal piano fantastico a quello reale, si cominciano a riconoscere tutti gli indizi, sapientemente disseminati tra le pagine, e si ricostruisce il meccanismo impeccabile con cui è sceneggiato il racconto.
A cominciare dal ritmo. Un ritmo perfetto nelle ripetizioni e nelle pause, nell’induzione della suspense e nel disvelamento del finale. Ogni voltar di pagina è una cadenza, fino ad una sospensione equilibratamente dosata che si amplifica al massimo nella penultima doppia pagina per poi tuffarsi, quasi con un tonfo, nel finale.
Il racconto inizia dal frontespizio: un barbaro dalla chioma fluente, abbigliato con elmo, corta tunica e calzari, impugnando spada e scudo, corre con gli occhi chiusi (Perché mai un barbaro dovrebbe correre con gli occhi chiusi? Forse per ostentare sicurezza in battaglia? Chissà…). Nella prima doppia pagina troviamo un cavallo con sella elegante e finimenti verdi ad attenderlo e via, si parte all’avventura.
Le tavole hanno uno sfondo rigorosamente bianco: oltre al protagonista e ai suoi nemici nessun altro dettaglio di contorno è mostrato.
Ogni scena di questo incredibile viaggio è animata da una sensazione tangibile di movimento: il barbato procede in avanti, si muove dall’altro verso il basso e viceversa a seconda degli ostacoli che trova. Ma è sempre in moto. E sempre, ad ogni voltar di pagina ansioso e curioso, incontra qualcosa.
E’ esattamente per questa limpida percezione del movimento e per l’attesa, diligentemente soddisfatta, della rivelazione di un nuovo pericoloso nemico ad ogni sfogliare, che le antenne del lettore si drizzano attente alla prima interruzione dello schema.
(I lettori si lasciano addomesticare dagli abili narratori, si abituano facilmente ai registri ben costruiti e i bravi autori sanno come introdurre e dosare le svolte narrative – le fratture – in modo che siano allineate con gli effetti che vogliono produrre)
La prima interruzione nello schema si rivela sotto forma di bianco: la pagina a destra è bianca, cioè – in questo caso – vuota. Il nostro barbaro per la prima volta da quando lo abbiamo conosciuto procede verso il nulla.
Dopo di che il guerriero si ferma (niente più chioma al vento) e…apre gli occhi! La doppia pagina successiva è un’amplificazione di questa: ancora il bianco, ancora gli occhi aperti –Sgranati? Stupiti? Preoccupati? Perplessi? – ancora l’immobilità, ancora, e ben di più, un senso di resa disperata.
Di fronte a questa incarnazione di un dio, il nostro barbaro, ovunque in precedenza così coraggioso, scoppia in un pianto disperato. Come dargli torto? Il luogo dove questi lo vuole portare non può che essere di quelli definitivi, senza ritorno. Si procede al voltar di pagina accorati.
Meraviglioso. Stuzzicati dalla sorpresa non resta che tornare indietro. Possibile che, come nel miglior romanzo giallo, non si era capito nulla?
Ancora più scioccante è accorgersi, ad una seconda lettura, che Moriconi dissemina indizi ovunque. Da quella strana linea nera in copertina – l’asse con cui il giocattolo da cavalcare è ancorato alla piattaforma – all’andar su e giù, alternato nelle pagine, (quel movimento curioso che è tipico delle giostre) fino all’invariabilità della posa del cavallo durante tutta l’avventura. E quando a noi era parso il barbaro si fermasse altro non era il carosello che finiva i suoi giri, da qui stupore e delusione.
Ma ciò che è fondamentale sono gli occhi chiusi. Gli occhi chiusi – che poi sono un simbolo perché un bambino è perfettamente in grado di immaginare ad occhi aperti – sono la parola d’ordine, la chiave che ci indica che, già all’apertura dell’albo, eravamo piombati, a nostra insaputa, perfino in smacco della nostra incapacità di abbandonarci all’immaginazione, nella dimensione del fantastico. L’autore ci ha condotti ignari nella terra del gioco e della fantasia.
Non scorgevamo altri particolari nelle scene, oltre i nemici – ma solo uno sfondo bianco – perché durante la lettura noi eravamo quel bambino, eravamo il piccolo barbaro e i nostri occhi aperti sulle pagine vedevano esattamente ciò che rivelavano i suoi, chiusi.
E’ sorprendente come Moriconi sia stato in grado non solo di meravigliarci ma anche di lasciarci sperimentare la magia del momento ludico, farci vivere per il tempo, fattivamente corto ma interiormente dilatabile, della lettura l’emozione di essere un bambino che gioca.