Il bardo sullo schermo

Creato il 25 marzo 2010 da Retroguardia

IL TERZO SGUARDO n.1: Il Bardo sullo schermo. Stefano Socci, “Shakespeare fra teatro e cinema”

Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)

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di Giuseppe Panella

 

Il Bardo sullo schermo. Stefano Socci, Shakespeare fra teatro e cinema, Firenze, Le Lettere, 2009

L’argomento è, ovviamente, sterminato. Sullo stesso tema trattato nel libro di Socci, mutatis mutandis, c’erano già stati almeno tre libri che si volevano significativi: Shakespeare e il cinema, a cura di Sergio Toffetti e Roberto Vaccino, pubblicato dall’ AIACE e dall’Assessorato per la Cultura della città di Torino nel 1979, il volume collettivo Shakespeare al cinema, a cura di Isabella Imperiali e Americo Sbardella, Roma, Bulzoni, 1985, Ombre che camminano – Shakespeare nel cinema, a cura di Emanuela Martini, Torino, Lindau, 1998 e inoltre un saggio molto importante di Guido Fink intitolato “Shakespeare sullo schermo: “un simile oggetto non esiste” (in Mettere in scena Shakespeare, a cura di Alessandro Serpieri e Keir Elam, Parma, Pratiche, 1987).

Socci, tuttavia, ha cercato di sintetizzare nel suo libro due diversi aspetti di questa possibile ricerca: da un lato, aspira ad una possibile completezza (e ne fa fede la cospicua appendice che va da p. 133 a p. 166), dall’altro, prova a verificare in alcuni dei testi filmici da lui analizzati la peculiarità della trasposizione delle opere shakespeareane dal momento teatrale allo specifico filmico.

L’incipit del libro è radicale, suona spavaldo e, nello stesso tempo, accorato nel suo desiderio di verifica del passaggio dal passato al presente di uno Shakespeare pur sempre nostro contemporaneo (per dirla con il titolo di un famoso libro di Jan Kott):

«Fin dal periodo muto le versioni cinematografiche dei testi di Shakespeare sono state fedeli o infedeli, dirette e indirette o semplicemente allusive. Si pensi all’ Hamlet realizzato nel 1920 dal danese Svend Gade, dove l’ottima Asta Nielsen interpreta il ruolo principale: alla regina è nata una femmina ma la ragion di Stato la spinge a dichiararla subito maschio, quindi la sventurata recita per tutta la breve vita una parte non sua e anche molto triste dato che, innamorata di Orazio, non può rivelarsi. Più di settanta anni dopo, in Last Action Hero – L’ultimo grande eroe (The Last Action Hero, 1993) di McTiernan, Amleto esprime i mutamenti del gusto assumendo una connotazione pulp. In una scuola americana il ragazzino Danny ascolta l’insegnante (Joan Plowright) che introduce la visione di una scena dell’Amleto (Hamlet, 1948) di Olivier: “Tradimento, cospirazione, sesso, duelli con la spada, pazzia, fantasmi e alla fine muoiono tutti: l’Amleto di Shakespeare non potrebbe essere più entusiasmante. Nonostante Amleto possa sembrare incapace di qualsiasi tipo di azione, in realtà egli è uno dei principali eroi dell’azione ”. Sullo schermo il principe sembra incerto se uccidere lo zio; Danny è irritato: “Non parlare, fallo e basta”. E con l’immaginazione sostituisce a Olivier l’eroe cinematografico Jack Slater, interpretato da uno Schwarzenegger come al solito spiccio e laconico. “Ehi, Claudius”, dice Jack accendendo un grosso sigaro, “hai ucciso mio padre: madornale errore!”. Il principe-Terminator solleva il fratricida e lo scaglia oltre una grande vetrata, nell’abisso che si apre sotto il castello. La voce fuori campo spiega: “C’è qualcosa di marcio in Danimarca e Amleto sta facendo piazza pulita”; il protagonista sostiene pensieroso il teschio di Yorick poi si scatena lanciando coltelli e mietendo vite. Polonio: “Trattieni la tua mano, nobile principe”. Amleto: “Chi dice che io sia nobile?”. Estrae una mitraglietta e fa strage di altri malvagi» (pp. 11-12).

La lunga citazione precedente si spiega non solo con il gusto della narrazione dettagliata di una sezione di un film che è stato molto sfortunato al botteghino proprio per la sua violenta e scatenata carica ironica nei confronti della tradizione classica (anche al cinema – un altro dei suoi bersagli comici sarà successivamente la falce della Morte ricavata di forza da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman e usata assai impropriamente in una delle scene finali del film) ma anche perché l’infedeltà al testo shakespeareano sembra sempre essere stata la caratteristica “migliore” delle trasposizioni cinematografiche delle opere del Bardo inglese.

Se al suo Hamlet è stato fatto subire di tutto (dalla versione western di Enzo G. Castellari intolata Quella sporca storia del West del 1968 alla trasformazione amatoriale e patetica di Kenneth Branagh in Nel bel mezzo di un gelido inverno del 1995 – tanto per citarne solo due di diseguale valore), è anche vero che sono state le versioni “filologiche” che lo riguardavano (una fra tutte – quella dello stesso Branagh girata nel 1996) ad essere state le peggiori e le meno entusiasmanti.

Lo stesso discorso vale per le altre opere shakespeareane (praticamente tutte, se si fa eccezione di Troilus and Cressida, anche se probabilmente ne esisterà una versione televisiva di teatro filmato) per le quali lo scrupolo filologico molte volte non è servito a farne un capolavoro cinematografico.

In realtà, il mondo culturale anglosassone vive da sempre di riporto della lettura della Bibbia (Il Grande Codice per dirla con Northrop Frye) e dell’ opera omnia del grande commediografo – è inevitabile quindi che il cinema attingesse ad esso a piene mani, spesso senza dichiararlo o inserendolo solo nei titoli di coda (come fa Gus Van Sant nel suo pregevole My Own Private Idaho del 1991). Di conseguenza, fare una storia della presenza di Shakespeare nel cinema significa scrivere una sorta di storia della produzione cinematografica (non solo occidentale) per lumi sparsi.

Il merito di questo libro di Socci, tuttavia, non è solo quello di essere una “lista di Leporello” dei debiti che il cinema ha nei confronti di Shakespeare; è una storia di un immaginario (quello comune alla cultura occidentale) che si è modellato in gran parte sul modello del teatro di Shakespeare. Certo, c’è stato il teatro greco delle origini a fare da modello per entrambi (che cos’è l’Amleto se non una versione approfondita e profondamente pessimistica del dramma di Oreste nelle opere di Eschilo e di Euripide?) ma il fatto è che il Bardo di Stratford upon Avon ha aggiunto al confronto tra uomini e Dei presenti nelle opere dei grandi tragici quello tra passioni umane e gioco del destino. L’uso che il cinema ha fatto e continua fare dell’opera shakespeareana è legata proprio alla capacità di valorizzare gli aspetti più coinvolgenti, più aspri, più avvolgenti dello scontro delle passioni che in essa è evidenziata e fatta emergere. Perché questo avvenga è necessario, quasi giocoforza, modernizzare e rendere contemporanea (spesso anche in senso stretto come nel caso di Romeo + Juliet di Baz Luhrman del 1996) l’opera teatrale perché riesca a comunicare il suo contenuto innovativo e trasgressivo anche a chi non vi si ritroverebbe altrimenti. Solo i grandi classici riescono a produrre quest’effetto e perché questo avvenga non basta – come troppo sovente fa Kenneth Branagh – riprodurre tel quel il testo così come il Maestro l’ha scritto (o si suppone che abbia fatto). In certo modo, invece, bisogna “tradirlo” (proprio perché sia meglio tra-dito).

Laurence Olivier nel suo Hamlet già citato sopprime Rosenkrantz e Guilderstein come personaggi dal dramma; Tom Stoppard, invece, li trasforma nei protagonisti (certo inconsapevoli e un po’ fatui) dell’opera che stanno vivendo focalizzando l’azione del suo film (tratto dalla sua opera teatrale) proprio su di loro. Branagh (e già prima Zeffirelli nel 1990) che li infilano nel posto giusto nella loro messinscena della storia del Principe danese li rendono delle figure un po’ stolide, un po’ inutili e sicuramente sacrificabili nel corso di una vicenda che è più grande di loro e delle loro vite.

Allo stesso modo, Akira Kurosawa rende ragione della storia di King Lear (1985) in misura mille volte più esaustiva (anche se lo nipponizza) dei tanti compitini anglosassoni che narrano la storia funesta del re e delle sue tre figlie. Lo stesso successo aveva raggiunto nella messinscena molto audace e barocca di Il trono di sangue (1957) dove non c’è bisogno del sangue che scorre a fiumi e della decapitazione in diretta del film di Polanski del 1971 per mostrare l’orrore e la sofferenza umana che rende il testo shakespeareano nitida e spaventosa parabola del Potere e delle sue leggi che non possono essere infrante.

Come scrive utilmente Socci (in questo libro che è tutt’altro che divulgativo nonostante quello che è dichiarato nella Premessa):

«Non solo Amleto ma anche altri personaggi del Bardo continuano ad affascinarci: forse perché la consumata maestria dell’autore ha legato ciascuno di essi a una qualità particolare, un’essenza psicologica e un “colore” umano che non mutano nel tempo, rendendoli quindi classici, indelebili. E il cinema, arte della sintesi, si è subito appropriato di queste figurazioni, assorbendole e riciclandole nelle forme più diverse. Esistono versioni cinematografiche di immediata, parziale o criptica derivazione shakespeariana, insieme ad altre che miscelano a piacere, talvolta in modo ironico o irriverente, personaggi e vicende del repertorio shakespeariano. Tra queste ultime alcune sono decisamente geniali… » (pp. 12-13).

Molto utilmente Socci le cataloga e le descrive, non rinunciando mai (come è giusto) a sostenere la propria opinione al riguardo, spesso in modo acuto e originale.


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