Nel 1835 Nicola Gogol, di passaggio a Roma, incontrò, nel salotto della principessa Zenaide Wolkonsky, Giuseppe Gioachino Belli e lo sentì recitare alcuni sonetti in romanesco.
Belli era un dicitore efficacissimo, con spiccate qualità di attore: conosceva la difficile arte di far ridere con il volto atteggiato a estrema serietà.
Gogol fu molto ammirato del Belli e ne parlò a Charles Augustin de Sainte-Beuve, che ne riferì in un suo articolo. Ciò avveniva molto tempo prima che negli ambienti letterari italiani qualcuno si accorgesse seriamente dell’esistenza del grande poeta romano.
Perché mai tanta cecità di fronte agli evidenti pregi della produzione poetica belliana? Giorgio Vigolo, che è stato l’interprete per eccellenza della poesia del Belli, ha osservato acutamente che la clandestinità era uno degli elementi essenziali dei sonetti di “Peppe er tosto” (come talvolta il poeta amava firmarsi). Essa era il frutto di una sorta di compromesso che il Belli aveva fatto, oltre che con se stesso, con il potere papale: l’anonimato poneva, infatti, il poeta al riparo da censure e sanzioni e permetteva che le sue feroci satire venissero tollerate; con lo stesso meccanismo per cui atteggiamenti beffardi o insolenti erano consentiti ai giullari nelle corti medioevali.
Per sua scelta, quindi, il poeta non pubblicò mai le sue poesie in dialetto e quando vagheggiò di darle alle stampe progettò di nasconderne la paternità dietro al titolo Er 996. Quella misteriosa cifra era nient’altro che la trascrizione grafica delle iniziali del suo nome e cognome in lettere minuscole (ggb).
La continua fuga dalla propria identità, che il Belli perseguiva, lo induce a chiudere un’altra lettera a Cencia con la dicitura: addio Il vostro Servitore Mancaquattrammille (cioè, novecentonovantasei).
Gli accorgimenti giocosi con cui il Belli si rivolge all’amata Cencia non si fermano qui: basti leggere un sonetto, scritto in occasione del di lei onomastico, inviato a mezzo della ignara moglie Mariuccia, con un acrostico che recita CENCIA È DI PEPPE.
Con tacit’ali o d’amicizia figlio
Entra là dove in molli coltri ascosa
Nobil Donzella a me cara riposa,
Chiudendo in grembo a quieto sonno il ciglio.
lvi del collo ah non lambire il giglio,
Ah non toccar del bel volto la rosa:
Erra un istante, e poi lieve ti posa
Di quella vergin sul labbro vermiglio.
Intanto poco andrà ch’ella sia desta
Premi tu allor la sua bocca pudica,
E fa ch’ella oda de’tuoi vanni il suono.
Poi correre in tuo pro me vedrai presta
Perché sia piano alla Diletta Amica
Esser te casto, e d’amicizia un dono.
Giorgio Weiss