Il blues di Massimo Carlotto

Creato il 21 ottobre 2013 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

Approfondimento di Noir Italiano, scritto da Omar Gatti in collaborazione con Massimo Carlotto  (da Fralerighe Crime n. 7)

Se Scerbanenco è ritenuto il padre del noir italiano e Macchiavelli colui che ha saputo dare al genere consistenza letteraria, allora Carlotto può essere considerato l’autore che ha regalato al poliziesco del nostro paese un respiro più ampio. Infatti nei romanzi dell’autore padovano è possibile trovare spunti di riflessione e fotografie della “realtà” criminale della società italiana, che pongono il noir su un livello più elevato, quello di strumento di denuncia sociale. Questo modo d’intendere e di vivere il poliziesco lo ha portato ad avvicinarsi alla scuola di grandi del noir internazionale come Manchette ed Helena e a diventare l’esponente di spicco del noir mediterraneo in Italia.

Ma cominciamo con ordine.

Massimo Carlotto, nato a Padova nel 1956, si fa conoscere al mondo della letteratura nel 1995 con il romanzo affresco “Il fuggiasco”, cronaca del suo periodo da latitante (Carlotto è stato al centro di un lungo e controverso caso giudiziario).

Ho compreso che la scrittura sarebbe stata la “strada” giusta da percorrere, quando me lo ha detto in maniera esplicita Grazia Cherchi, scrittrice, critica, editor di chiara fama. Essendo noti il suo rigore e inflessibilità ho capito subito che stava parlando sul serio e mi sono dedicato in modo esclusivo alla scrittura.

Inoltre il successo de Il fuggiasco è stata la spinta definitiva e ha convinto l’editore a credere in progetti futuri, totalmente diversi.

Lo stesso anno esce “La verità dell’Alligatore”, che può essere considerato l’equivalente della “Venere Privata” di Scerbanenco, ovvero un romanzo che stravolge il modo di percepire il noir in Italia. Un hard-boiled nero e avvincente, che ha molti agganci con la realtà.

L’Alligatore è il soprannome di Marco Buratti, detective privato veneto. Buratti ha un passato da cantante blues e ha scontato sette anni di carcere per aver dato asilo a un terrorista, nonostante fosse totalmente estraneo ai fatti. L’aver vissuto quest’ingiustizia lo ha reso ossessionato dalla giustizia, che cerca di raggiungere a ogni costo. Egli infatti, grazie agli anni di carcere che l’hanno visto nel ruolo di “mediatore”, viene contattato da avvocati, giudici, privati cittadini che hanno problemi e non possono fare affidamento sulla legge per risolverli.

Con il mio personaggio condivido la passione per il blues e il calvados e l’essere stati ospiti dello Stato. Nulla di più. L’Alligatore, un omaggio evidente al filone hard-boiled (a mio avviso non si tratta di noir ma di un romanzo poliziesco con finale non consolatorio), è nato nel periodo in cui gli avvocati difensori, grazie al nuovo codice, hanno potuto, finalmente, ingaggiare professionisti per indagare a favore dei propri assistiti. E io ne ho approfittato inventando un investigatore senza licenza, un modo per uscire dalla logica dei personaggi tradizionali e legati alle istituzioni. A me serviva un uomo ossessionato dalla verità che non avesse scrupoli ad attraversare il confine della legalità pur di arrivare a scoprire e a svelare la realtà che circonda gli avvenimenti narrati.

I romanzi dell’Alligatore (ne seguiranno altri sei) prendono tutti spunto da una situazione o da un fatto di cronaca realmente avvenuto. Questo è un fattore peculiare della produzione di Carlotto: il noir deve raccontare la verità. Se il tempo della grandi inchieste giornalistiche è tramontato, vuoi per colpa delle lobby, delle querele o della perdita d’interesse da parte dell’opinione pubblica, allora tocca al noir raccoglierne l’eredità. I romanzi di Carlotto mi piacciono (pura opinione soggettiva), perché possono essere letti su due livelli differenti. Il primo è quello della semplice storia noir, denominata da uno stile asciutto, un ritmo veloce e da una scrittura che cattura. Il secondo è quello della riflessione. Carlotto non cerca di spiegare la realtà o di trovare la verità dei fatti ma lancia la cosiddetta “pietra”. Una pista, un ragionamento, un semplice indizio. Sta poi al lettore comprendere e approfondire.

Il bisogno di raccontare la realtà attraverso lo strumento del romanzo nasce dalla convinzione che questo Paese abbia da sempre un rapporto perverso con la verità, e di conseguenza tutta la realtà storica sia una nebulosa e raffazzonata ricostruzione di comodo. Una percezione collettiva che distorce totalmente la capacità di interpretare il presente. Defunto il giornalismo d’inchiesta, il romanzo è rimasto uno strumento straordinario per narrare la complessità di una società in perenne trasformazione ma che è incapace di liberarsi della sua natura criminogena.

Uno dei romanzi del ciclo dell’Alligatore che più mi ha colpito è stato “Nessuna cortesia all’uscita”, nel quale il detective si trova a doversela sbrigare con la “liquidazione” della mala del Brenta da parte del capo (riconducibile alla figura di Maniero). Raccontare la storia e i retroscena del pentimento del più importante criminale veneto è una grande lezione di letteratura: con il noir è possibile raccontare la verità, anche scomoda, non solo intrattenere.

La genialità di Maniero è stata comprendere per primo la fine della mala italiana ed è il capo banda che ne è uscito, non solo senza danni, ma con vantaggi economici non indifferenti. I criminali veneti ora lavorano per le mafie tradizionali o per quelle estere, al massimo sono in grado di mettere in piedi micronuclei dediti alle truffe o allo spaccio.

I romanzi di Carlotto sono dunque basati su una documentazione approfondita e meticolosa, che spesso dura molto di più del tempo di scrittura della storia stessa.

Per fare un esempio, il romanzo “Perdas de Fogu” (scritto con il collettivo Mama Sabot e che verte sul poligono militare di Salto di Quirra, in Sardegna), ha richiesto due anni di ricerche e un volume di articoli e di documenti che è arrivato a sfiorare le millecinquecento pagine. Una quantità incredibile di materiale, se si considera che il romanzo supera appena le centosessanta.

Sono sempre alla ricerca di temi che abbiano un senso generale. In particolare mi interessa narrare l’intreccio tra criminalità e classe dirigente e questo mi ha trasformato in un osservatore attento della realtà che usa i metodi del giornalismo investigativo per raccogliere il materiale utile al romanzo. Una trama nasce sempre da una riflessione precisa basata su dati raccolti sul campo (interviste, sopralluoghi etc.) e dalla sua trasformazione in intreccio romanzesco.

Nel 2000, smessi i panni dell’Alligatore, Carlotto da vita a un personaggio unico nel suo genere: Giorgio Pellegrini.

Un pezzo di merda fatto e sputato. Un personaggio repellente che ispira al lettore un senso di disprezzo profondo. Pellegrini, bergamasco, è un ex attivista di sinistra, finito a fare il  guerrigliero e che vive ai bordi del grande crimine. E’ un uomo senza scrupoli, pronto anche a vendere sua madre per qualche euro in più. Uccidere, tradire e stuprare  non sono certo dei problemi. Se l’Alligatore era un personaggio buono, con i suoi difetti ma che comunque rappresentava la sete di giustizia, Pellegrini è il lato oscuro dell’uomo. E qui sta la capacità di Carlotto nel rinnovarsi. Raccontare il “male”, il crimine dall’interno, non come semplice delitto da sbrogliare, bensì come effettivo fil-rouge della vicenda. E l’infiltrazione criminale che si sta propagando a macchia d’olio nel tessuto della società italiana, per una sorta di alleanza con politica e imprenditoria e per la miopia dell’opinione pubblica, abituata a intendere il mafioso come l’uomo con la coppola e la lupara.

Giorgio Pellegrini è nato dalla necessità di entrare in conflitto con i lettori sulla qualità criminale dei personaggi proposti nei romanzi. Troppo spesso romantici e caratterizzati da un’umanità degna di altre esperienze esistenziali. Così ho voluto raccontare la diversità antropologica che ci divide da quel tipo di criminali ed è nato Giorgio Pellegrini, frutto di un attento studio sugli aspetti psicologici di alcuni personaggi reali.

Un’altra differenza tra i romanzi di Carlotto e la tradizione noir italiana è che nella produzione letteraria dell’autore veneto non esiste (o è molto annacquato) il lieto fine. E’ uno schema consolidato, nel poliziesco italiano in genere, che il romanzo termini comunque con un finale consolatorio, dove il crimine viene estirpato e la situazione iniziale ristabilita. Scerbanenco aveva provato a far comprendere che, nonostante tutti gli sforzi possibili, il crimine non si sarebbe potuto vincere, poiché è insito nell’animo dell’uomo. Lo stesso si può dire di Macchiavelli. Ma nei romanzi di Carlotto il finale è un pugno nello stomaco, perché anche se il criminale di turno viene ammazzato o catturato, si capisce benissimo che ce ne sono altri cento pronti a sostituirlo.

Quando la criminalità è vincente ed è riuscita a infiltrarsi in ogni piega della società, nessun finale può essere consolatorio. Io credo che possa esserlo, al contrario, la volontà di conflitto perché la criminalità, nata dalla globalizzazione dell’economia, è una nemica assoluta della democrazia e del progresso. Non si può tollerare ma solo combattere. Ritengo importante una riflessione e cioè che oggi si stanno evidenziando sempre di più le differenze tra le diverse concezioni della letteratura di genere. Comunità di lettori con idee e gusti precisi. Io spero che questo contribuisca al rilancio di un confronto necessario.

E’ dunque obbligatorio, per un appassionato di noir all’italiana, leggere i romanzi di Carlotto. Probabilmente non vi cambieranno la vita (pochi libri possono vantare questa capacità, forse Hemingway, Hesse e Kerouac) ma sono di sicuro divertenti da leggere e vi lasceranno qualcosa dentro. Starà poi a voi farla germogliare oppure no.

BIBLIOGRAFIA

Ciclo dell’Alligatore

  • La verità dell’Alligatore

  • Il mistero di Mangiabarche

  • Nessuna cortesia all’uscita

  • Il corriere colombiano

  • Il maestro di nodi

  • L’amore del bandito

Ciclo di Giorgio Pellegrini

  • Arrivederci amore, ciao

  • Alla fine di un giorno noioso

Altri scritti

  • Il fuggiasco

  • Le irregolari

  • L’oscura immensità della morte

  • Niente, più niente al mondo

  • con Marco Videtta, Nordest

  • La terra della mia anima

  • con Francesco Abate, Mi fido di te

  • Cristiani di Allah

  • con i Mama Sabot, Perdas de Fogu

  • con Francesco Abate, L’albero dei microchip

  • Respiro corto

  • Cocaina

    Omar Gatti

    (articoli originariamente pubblicati (in quattro parti) sul blog di Noir Italiano)



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