Il Brigantaggio, dice Coppola, anche con i suoi errori e le sue storture, fu l'ultimo tentativo del popolo meridionale di rimanere libero. Ricordare, anzi, imparare a conoscere il brigantaggio per quello che fu veramente, potrebbe essere un primo passo verso una coscienza di se stessi che è preludio all'emancipazione politica, sociale ed economica.
Il Brigantaggio, che fu resistenza contro gli invasori piemontesi, ha interessato tutto il Meridione d'Italia e quindi anche il Salento. Briganti salentini furono Pasquale Romano di Gioia del Colle ricordato come il “Sergente Romano”, Cosimo Mazzeo di San Marzano soprannominato “Pizzichicchio”, Rosario Parata “Lo Sturno” di Parabita, Quintino Venneri “Melchiorre” di Alliste.
Non è vero che il Regno delle Due Sicilie, prima del 1861, fosse una terra arretrata, dedita solamente all'agricoltura estensiva, priva di qualsiasi forma di industria e sottoposta ad un regime politico repressivo e retrogrado.
In campo economico i Borbone avevano stimolato la nascita di industrie per emancipare il regno dalle importazioni estere, riuscendo ad attirare capitali ed investitori stranieri e dando lavoro a parecchie persone. Gli stabilimenti siderurgici di Mongiana e di Ferdinandea, in Calabria, contavano circa 4000 operai. Negli stabilimenti metalmeccanici di Pietrarsa, vicino Napoli, erano impiegati più di 4000 operai. I motori economici dello Stato erano la Campania industriale, la Puglia agricola e commerciale, la Calabria con i suoi giacimenti di ferro e le industrie metallurgiche.
Dall'Annuario Statistico Italiano dell'anno 1862 risulta che la moneta circolante nel Regno di Napoli nel 1860, calcolata in lire-oro, era superiore a quella di tutti gli altri Stati messi insieme: 443.200.000 a Napoli, 226.000.000 nei restanti Stati. La bilancia commerciale era positiva nel Regno di Napoli (+ 41 milioni circa), nel Lombardo-Veneto (+ 42 milioni circa), Umbria e Marche (+ 11 milioni circa), era invece altamente negativa nel Pimonte (- 85 milioni circa).
Il Regno duosiciliano era dotato di un fisco agile e leggero – appena 5 tipi di tasse e imposte, contro le 37 imposte dai piemontesi già nei primi anni dell'unità – permettendo un tenore di vita medio non alto ma dignitoso.
Il Salento, che costituiva la Provincia di Terra d'Otranto, si estendeva dal Capo di Leuca fino al Golfo di Taranto con parte dell'odierna Basilicata, comprendeva un territorio di circa 6.500 chilometri quadrati suddivisi in 130 comuni e 70 borgate con una popolazione di circa mezzo milione di abitanti.
Nel Salento diffusissime erano le banche, esistevano ben 145 istituti di credito tra banche agricole, monti di pegno e monti frumentari. Con l'arrivo dei piemontesi fu tutto smantellato e rapinato.
Come in tutto il Regno, anche nel Salento, pur se con minore intensità essendo la proprietà fondiaria molto più frammentata rispetto al resto del meridione, esisteva l'eterno dissidio tra i feudatari proprietari terrieri e i contadini che lavoravano le terre. La dinastia Borbone, in questa lotta, era schierata con il popolo contro i cosiddetti “galantuomini”. Attraverso una mirata legislazione venivano difesi i diritti di chi nei fatti possedeva e lavorava la terra. L'avventura garibaldina e la conseguente unità d'Italia rompe questo delicato equilibrio. Il popolo meridionale, privato dell'alleato Borbone, rimase alla mercé degli eterni nemici “galantuomini”. Tutte le promesse garibaldine sulle quotizzazione delle terre non vengono mantenute. I contadini vengono ridotti alla fame. Non resta che la rivolta.
Dopo il plebiscito-truffa le masse contadine in tutto il Meridione ed anche nel Salento si mettono in subbuglio. A cominciare dagli ultimi mesi del 1860 scoppiano tumulti contro i piemontesi, con sorti alterne, a Tuglie, a Sava, a Surbo, a Matino, a Parabita, a Sternatia, a Poggiardo, a Marittima, a Oria, a Taviano, ed in tantissimi altri centri. Il governo di Torino avrebbe potuto cercare la pacificazione, attraverso una vigorosa riforma agraria e un approccio moderato. Risponde invece con i fucili, spostando nel Meridione la maggior parte dell'esercito “italiano”, e con la leva obbligatoria.
E' l'innesco del grande brigantaggio.
La maggior parte dei giovani meridionali arruolabili si da alla macchia e si unisce agli sbandati del disciolto esercito borbonico. Nascono tante bande, capitanate da uomini valorosi. Il problema del rifornimento di armi viene risolto assaltando le caserme della guardia nazionale.
Gli scontri a fuoco tra bande di briganti e truppe piemontesi sono tantissimi.
Il 4 agosto 1861 la banda guidata da Rosario Parata detto lo “Sturno”, sottoufficiale del disciolto esercito borbonico, nativo di Parabita, invade il Comune di Supersano, e nei giorni successivi quelli di Scorrano e Nociglie. Negli stessi giorni Donato Rizzo, detto “sergente”, assalta con i suoi la caserma della guardia nazionale di Carpignano.
Dopo i primi successi le bande si ingrossano sempre di più ed altre se ne formano. La banda di Quintino Venneri detto “Melchiorre”, nativo di Alliste, scorrazza nella valle di Taviano-Matino. La banda di Salvatore Coi opererà nella zona del Capo di Leuca. Cosimo Mazzeo di San Marzano, detto “Pizzichicchio”, acquisterà grandissima fama per essere riuscito per un lungo periodo a tenere in scacco e a battere ripetutamente le truppe regolari. La personalità più di spicco fra i briganti-ribelli fu Pasquale Romano, detto “Il Sergente Romano”, militare di carriera borbonico nativo di Gioia del Colle. Il Romano nel luglio 1862 riesce ad ottenere ad Alberobello una vittoria schiacciante contro i soldati regolari piemontesi.
Nell'agosto 1862 tutti i principali capibanda di Terra d'Otranto si riunirono nel bosco della Pianella, vicino a Taranto, per concordare una strategia comune. Pasquale Romano viene nominato capo supremo, riuscendo ad avere a disposizione circa 700 uomini a piedi e 300 a cavallo.
La rivolta diventa guerra civile, il Salento e l'intero Meridione sono in fiamme.
Il governo sabaudo cerca di nascondere e minimizzare l'entità della rivolta, tentando di far credere che i briganti sono dei delinquenti comuni. Ma non tutti abboccano. Un deputato in una seduta parlamentare a Torino afferma: «E' possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa ad un esercito regolare di 120.000 uomini?». Si risponde con la Commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio e la Legge Pica, attraverso la quale si autorizzò l'esercito a stroncare ogni forma di ribellione attraverso delle misure repressive, scrive Carlo Coppola, che niente avevano da invidiare a quelle che saranno poi attuate dai due virtuosi del genocidio del XX° secolo: Hitler e Stalin. Inizia per il Salento e per il Meridione tutto una delle pagine più buie della propria storia.
La spietata repressione che si abbatté su tutto il Meridione ebbe ragione della ribellione. La Pica, scrive Coppola, non fu una legge, fu un'infamia.
Il Salento in appena 5 anni, scrive ancora Coppola, arretra economicamente di 50 anni. Unica soluzione rimase l'emigrazione. «I Salentini cercheranno fortuna prima nei paesi dell'America Latina, poi negli Stati Uniti e alla fine nei paesi più ricchi del Continente Europeo: Germania, Francia, Svizzera, Belgio, contribuendo ponderosamente, con le proprie rimesse, alla costruzione del sistema industriale del nord Italia e divenendo quella coloniale riserva di manodopera a basso costo a servizio dello sviluppo e del benessere dei nostri connazionali padani e di qualche “galantuomo” locale».
Forse ci conviene ridiventare briganti.
Rocco Biondi
Carlo Coppola, Il Brigantaggio in Terra d'Otranto, Ribellione popolare e repressione militare dal 1860 al 1865, Associazione Culturale Area, Circolo di Matino “Raffaele Gentile”, Matino (LE) 2004, pp. 88