Allora ero piccolo, e non capivo perché certi genitori si facessero venire la bava alla bocca dalla rabbia quando vedevano il proprio "prodigio" in panchina o quando l'allenatore lo metteva fuori squadra. In particolare non capivo perché questi signori si comportassero in questo modo, mentre mio padre se ne stava bello tranquillo a bordo campo a guardare allenarsi la schiappa - almeno in campo calcistico - che s'era ritrovato come figlio.
Poi passa il tempo, si cresce e ci si appassiona ad altro (non è un segreto che i fatti di Genova 2001 furono per me un crocevia decisivo...), quindi per me il tirare calci ad un pallone si limitava ai tre mesi estivi, quando rompere una finestra o mandare il pallone su qualche terrazza era la cosa peggiore che potesse capitarti (in particolare se la/il proprietari@ della finestra ti rincorreva minacciandoti con una scopa in mano...). Uscendo dal mondo "ufficiale" del calcio dei bambini credevo che certe dinamiche si fossero in qualche modo se non estinte, quanto meno mitigate. E invece deve sempre succedere qualcosa che mi fa ricordare che le brutte abitudini, in Italia, sono quelle che durano di più...
Immaginatevi questa scena: siete i proprietari di una scuola calcio, una di quelle che ha visto grandi campioni allacciarsi le prime scarpette e segnare i primi gol (da quel che so anche uno dei più importanti attaccanti nostrani di oggi è passato su quei campetti), a settembre di solito si formano le squadre per i vari campionati a cui la scuola parteciperà - quando giocavo io la cosa era decisamente più semplice, visto che si andava per età - e, come ogni anno, anche in questi giorni gli allenatori si prodigano in questa operazione. Vengono promossi in squadra solo i migliori, non solo quelli coi piedi migliori, ma anche quelli con un comportamento - e magari anche una pagella - degno di nota, perché ricordiamoci che non siamo all'AtaQuark,
Naturalmente di Diego Armando Maradona ne è nato uno solo su questo pianeta, quindi non tutti i ragazzi che si allenano possono essere scelti, nonostante i genitori - cioè il primo ambiente che dovrebbe educare un bambino - spesso si dimentichino questo aspetto. Che si possano contestare le scelte degli allenatori è logico, considerando anche che siamo nel paese in cui ogni italiano (o quasi) ha come secondo lavoro - non retribuito - proprio quello di allenatore della propria squadra del cuore o della Nazionale. Ma che ci si presenti di fronte ai dirigenti ed all'allenatore muniti di coltello minacciando di fare una strage perché tuo figlio è stato scartato mi sembra quanto meno eccessivo. O forse dovrei dire che mi sembra logico nel clima che il calcio moderno - almeno in Italia, visto che non conosco la sitazione negli altri paesi - sta portando da qualche anno a questa parte.
Il secondo episodio che mi dà in qualche modo da pensare è questa sorta di trasformazione oserei dire antropologica del tifoso, trasformatosi negli ultimi anni nella versione estremista che prende il nome di "ultrà". Non so se sono io che non lo ricordo o cosa, ma se non sbaglio fino a qualche anno fa c'erano sì scene di violenza negli stadi, ma comunque ci si poteva andare tranquillamente con i propri bambini senza rischiare che ti arrivasse un motorino o altro in testa. Avrete letto tutti ieri del "focoso scambio di opinioni" che a Bergamo ha visto contrapporsi persone con le sciarpe dell'Atalanta BC a persone di verde vestite perché partecipanti ad un raduno della Lega Nord. Voglio sorvolare sulla rappresentazione mediatica dell'evento, descritto dagli imbrattafogli nostrani come un agguato verso il Ministro dell'Interno Maroni (e mentre tali parole venivano profuse dal tubo catodico, le immagini ci raccontavano di un Ministro che continuava a starsene seduto a parlare alla platea, incurante dei rumori che sentiva...). Sorvolando su questo arrivo a parlare del terzo episodio, cioè della rivolta popolare - per ora solo a parole - dei tifosi napoletani per la cessione di Fabio Quagliarella alla Juventus, con relative minacce di morte al presidente De Laurentiis, accusato di essere solo un affarista. Ora, per quanto non mi piaccia il calcio "tifo" Napoli anch'io, ed anche al tifoso che è in me non è andata giù questa cessione, ma mai - e sottolineo mai - mi verrebbe in mente di minacciare il presidente della squadra per cui tifo. Quantomeno perché i soldi che investo io si limitano solamente al biglietto o all'abbonamento, gli stipendi continua a pagarli lui. E visto anche il monte ingaggi direi "fortunatamente". Volete vedere i vostri giocatori preferiti con la maglia della vostra squadra del cuore? avete due possibilità: o giocate ad uno dei tantissimi giochi di calcio in cui potete costruirvi la vostra fanta-squadra (anche se ho il timore che qualcuno sarebbe capace di farsi dare il Daspo anche in quelle circostanze...) oppure prendete i vostri soldini, racimolate la cifra necessaria, andate dal presidente e vi comprate tutto il baraccone, così gli unici responsabili delle disgrazie della squadra sareste soltanto voi!
Non si combatte la violenza con la repressione (cioè con una forma legalizzata e legittimata da una divisa di violenza). La si combatte con la cultura dello e nello sport. Torniamo alla storia che vi ho raccontato all'inizio, quella del padre che si presenta davanti ai dirigenti della scuola calcio con coltello in mano: mettiamoci nei panni del figlio (13enne), cosa avrà imparato da questa scena, dove peraltro uno dei protagonisti è la sua figura di riferimento? Non avrà imparato che nella vita esiste la sconfitta, e che non tutti sono portati per fare cose che fanno i propri amici, ma avrà imparato che anche se si viene sconfitti si può utilizzare la violenza per cambiare il responso, e visto che ad insegnarglielo è stato il padre si sentirà ancor più legittimato quando, in una situazione che giudicherà simile a questa, applicherà quello stesso "modello educativo", magari tagliando le gomme della/del docente che gli ha messo un brutto voto a scuola perché impreparato o chissà cos'altro. È un bambino che ha già capito come girano davvero le cose in questo paese: non con il merito ma con l'imbroglio, e dove non arriva l'imbroglio "pacifico" scatta la violenza, quella violenza di cui sono pieni i nostri telegiornali, necessaria a rinfocolare il clima di paura fulcro della società moderna.
Il problema principale del calcio, almeno di quello nostrano, evitando il qualunquistico - seppur veritiero - "troppi soldi" è un problema culturale. Non - come potrebbe apparire - un problema di mancanza di cultura, bensì un problema di sostituzione di cultura. Sostituzione della cultura "sportiva" del calcio, che oggi a malapena ritroviamo nei campetti arrangiati delle periferie dove ancora si usa delimitare le porte con maglie o zaini che ha ceduto il posto ad una cultura "industriale" del pallone. A ricordarcelo è - come al solito in una maniera che definire magistrale è riduttivo - lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, che nel suo "Splendore e miserie del gioco del calcio" scrive: «La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall'allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l'uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto col gomitolo di lana. Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi. La tecnocrazia dello sport professionistico ha imposto un calcio dipura velocità e forza, che rinuncia all'allegria, che atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio.
Ecco, forse è questo l'errore che tutti commettiamo. Forse l'errore è proprio nel non riuscire a guardare più al calcio per quello che è in realtà: uno sport per bambini. Uno sport in cui il terzo tempo non deve essere imposto per legge.