Il calcio italiano al disastro. Troppi stranieri: serve una terapia d'urto, come nel 1966
Creato il 26 giugno 2014 da Alessandromenabue
A pensarci oggi pare impossibile, eppure c'è stato un tempo in cui i calciatori stranieri non calcavano le scene dei nostri campionati. Nel secondo dopoguerra, alla ripresa dei campionati mondiali di calcio (sospesi dal 1938, anno del secondo titolo azzurro) l'Italia riuscì ad inanellare una disastrosa serie di insuccessi: fuori al primo turno nel 1950, 1954 e 1962, addirittura non qualificata alla fase finale del 1958 giocata in Svezia. Il vertice della catastrofe lo si raggiunse al mondiale inglese del 1966: il 19 luglio di quell'anno la nazionale di Albertosi, Facchetti, Mazzola e Rivera fu rispedita in patria alla fine del primo turno dal nordcoreano Pak Doo Ik. Dopo sedici anni di fallimenti totali era necessaria una terapia d'urto per il moribondo calcio patrio e la ricetta ideata dalla FIGC fu tanto drastica quanto discussa: chiusura totale del mercato agli atleti stranieri, accusati di indurre le società a non investire adeguatamente nei vivai nostrani. L'embargo durò fino al 1980, quattordici anni durante i quali gli azzurri conquistarono un leggendario secondo posto in Messico nel 1970, la quarta posizione ai mondiali argentini del 1978 e la vittoria agli europei del 1968. Quando agli albori di quel nuovo decennio la Federazione decise di riaprire le porte al mercato estero, si ripartì con estrema cautela: un solo giocatore per squadra e solo nel massimo campionato. La prima ondata di atleti stranieri portò sui nostri campi da gioco alcuni grandi talenti come Liam Brady (Juventus), Daniel Bertoni (Fiorentina) e il romanista Paulo Roberto Falcao ma pure memorabili bidoni: da ricordare (ma anche no) Luis Silvio Danuello della Pistoiese, Fortunato del Perugia ed il triste Eneas del Bologna, attaccante di micidiale inettitudine, talmente mediocre da far brillare il compagno di reparto, l'altrettanto scarso Salvatore Garritano. Preistoria: sedici giocatori stranieri, il 5,2% del totale della serie A di allora. Dopo venticinque anni si sarebbe toccato il 30% per arrivare a sfiorare l'attuale 55%. La pluridecorata Spagna è arrivata al massimo al 39% ed i club iberici di maggiore successo restano quelli che hanno saputo affiancare ai campioni esteri pattuglie di giovani cresciuti nelle loro formazioni giovanili. La smodata quantità di calciatori stranieri mortifica, non da oggi, quello che resta dei grandi vivai italiani: i talenti che crescono nelle nostre società sono sempre meno e i pochi che riescono a farsi strada sui nostri campi sono sempre meno e sempre più spesso ci vengono soffiati dalla concorrenza europea. E' esemplare il caso di Marco Verratti, uno dei pochi azzurri che può tornare a casa a testa alta dopo la figuraccia appena rimediata in Brasile dal team di Prandelli: cresciuto nelle giovanili del Pescara, ha militato per quattro anni nella prima squadra del club abruzzese prima di essere ceduto al Paris Saint-Germain dove ha già vinto un campionato e la supercoppa di lega. E' chiaro che nel 2014 l'idea di chiudere nuovamente le frontiere del football è impensabile; d'altra parte è altrettanto evidente che allo stato attuale questa situazione non sta facendo bene a nessuno: non solo alla nazionale ma agli stessi club, ormai incapaci di affermarsi nelle competizioni europee. I nuovi vertici della FIGC dovranno guardare in faccia la realtà e prendere provvedimenti concreti in merito: sarebbe necessaria la stessa risolutezza del 1966 applicata al mondo del pallone contemporaneo. E qui la domanda sorge spontanea: quale forza ha oggi la Federcalcio per cambiare concretamente le cose?