Il canile dei cani più felici del mondo è a Phuket, in Tailandia.

Creato il 16 dicembre 2015 da Loredana De Michelis @loridemi

La Tailandia non è un paese famoso per il rispetto dei cani. Come in tutti i posti dell'Asia, e non solo, i cani sono considerati come da noi i piccioni: stanno in strada, malconci, sopravvivono di spazzatura, finiscono sotto le auto e quando danno troppo fastidio o crescono eccessivamente di numero, vengono ammazzati. 

Per questo sarà difficile che i taxisti dell'aeroporto di Phuket sappiano come si dice "canile" in inglese, sappiano che cos'è e sappiano dov'è: non sanno neppure di possedere in qualche modo un'attrazione turistica particolare e autentica, in un posto che di autentico non ha più nulla, se non la svendita estrema di natura e persone ai turisti.
La Soi Dog Fundation ha più di un milione di followers su Facebook e può contare su donazioni straordinarie. Il suo fondatore è un signore inglese di una certa età con il gusto per la lotta sociale, che negli anniè riuscito a farsi rispettare dalle autorità tailandesi e a realizzare persino delle cliniche mobili che si spostano per il Paese sterilizzando e curando migliaia di cani e gatti. Non contento, rischia la vita con una certa regolarità nel combattere la macellazione e il consumo clandestino di carne di cane, che si svolge soprattutto al confine con la Cambogia.
Per capire meglio come funziona tutto questo, vale davvero la pena andare a visitare il suo canile di Phuket, seguendo le indicazioni fornite dalla fondazione stessa: contrattare il prezzo con il tassista, fornirgli l'indirizzo, che non conoscerà, dargli il nome dell'hotel più vicino perché si convinca a partire, chiedergli di girare all'incrocio X, dove c'è l'indicazione stradale in inglese.
Io ci ho provato. Non è stato facile convincere il tassista, che non capiva dove volessi andare. Quando gli ho chiesto di girare seguendo l'indicazione "Soi Dog Shelter", si è agitato, tentando di spiegarmi che non si trattava di un hotel.
Con lui sempre più preoccupato, siamo arrivati ai cancelli di Soi Dog, che è un'area di terreno dell'interno di Phuket, sotto un ripetitore: una zona che non avrebbe potuto ospitare alcuna speculazione edilizia.
Il terreno è brullo e pieno di pozzanghere. Il cancello è aperto e l'abbaiare dei cani è assordante: ce ne sono più di 500.
Un cane grosso, grasso e nero, con un pelo dal lucore molto strano, si avvicina senza scodinzolare: è lui il padrone di casa. Il tassista a questo punto è terrorizzato e chiude i finestrini e anche le porte del taxi, mentre mi chiede se sono proprio sicura di volere scendere lì.
Quando vedo il cane da vicino, che mi fissa attraverso il finestrino, mi accorgo che non è un cane nero: è abbronzato. Non ha pelo, e la pelle glabra, unta (scoprirò in seguito, di crema solare ad alta protezione) è scurita dall'esposizione al sole. È uno dei tanti cani salvati dall'ultimo stadio di una rogna terribile, a cui il pelo non è mai più ricresciuto. È anche uno dei pochi cani che circolano liberamente nel piazzale, per le sue qualità socievoli con tutti, gatti compresi. Questo non toglie che ci stia controllando bene bene.
Pago il tassista e scendo: lui, in uno stato di confusione totale, fissa a bocca aperta la Limousine con autista e vetri oscurati che ha appena parcheggiato, e da cui scende una ragazza russa in vestito da sera viola. I suoi due aiutanti trascinano enormi sacchi di crocchette per cani verso le costruzioni al centro del piazzale. Io seguo, voglio vedere la scena. Il tassista rimane nella sua auto, con i finestrini chiusi: se pensava di averle viste tutte si sbagliava.
La russa ha degli stivaletti di raso con tacco a spillo di metallo e il suo vestito struscia nelle pozzanghere: si inchina lievemente a tutti i cani che incrocia e va dritta verso la ragazza occidentale che è uscita da uno degli edifici-container del canile. Quando le arriva vicino, unisce i palmi delle mani al petto e piega il busto in un saluto che più che tailandese mi pare degli hippy del Goa, ma non sento se le scappa pure un Namastè. Spiega in inglese che risiede all'hotel Y, che ha saputo del canile, che ringrazia tutti per la loro bontà d'animo e che reca in dono oro, incenso, crocchette e un assegno.
Vorrei correre indietro a tirare fuori il tassista per le orecchie e filmare la sua faccia, ma è sgommato via. A questo punto ho la bocca spalancata anch'io e il fiato sospeso.
La ragazza occidentale non fa una piega: è alta, un po' robusta, ha gli stivali infangati, un caschetto di capelli castani e due occhi verdi, verdi di treno in corsa, che tendono a soffermarsi nei tuoi un po' troppo a lungo. Con gesti parchi chiama qualcuno dall'edificio e arrivano due ragazzi asiatici, che afferrano i sacchi di crocchette e invitano la signora a entrare.
Occhi Verdi sposta lo sguardo su di me, e lì lo pianta, senza dire nulla. Balbetto che sono lì per visitare il canile e... aiutare... se non... se serve... se non disturbo. Il latrare dei cani è assordante.
Lei mi dice di farmi un giro, appena finiscono con la russa mi manda qualcuno.
Io ho studiato la pagina Facebook di Soi Dog e il loro sito. A parte le foto di cani recuperati in condizioni spaventose, che a guardarle ci vuole stomaco, so che dovrebbe esserci una clinica molto attrezzata dove lavorano veterinari tailandesi, un gattile, alcuni cani che sono diventati delle star per la loro triste storia finita bene, e uno stagno circondato da panchine di pietra.
Le panchine voglio proprio vederle, perché su Facebook, Soi Dog, ogni tanto mette un trafiletto, a proposito di un vecchio cane deceduto lì, al canile, dopo una lunga vita, prima di stenti e poi di tanto amore: scrivono che gli hanno costruito una panchina alla memoria. Io lo devo ancora vedere, un canile nel terzo mondo, che spreca soldi a far costruire panchine commemorative intorno a uno stagnetto, con centinaia di cani da nutrire e curare: secondo me raccontano un sacco di balle ai donatori.
Mi aggiro cauta sotto il sole grigio tropicale: un paio di cani mi scortano e non c'è nessuno che possa salvarmi, in caso decidessero di azzannarmi. Nei recinti, che sono enormi e con il pavimento di cemento, ci sono decine di cani. Hanno molte pedane di giunco protette da tettoie dove ripararsi all'ombra e dove sostano a gruppetti. Quando mi avvicino alla rete, alta oltre due metri, molti si avventano abbaiando e scatenando un fracasso insopportabile in tutto il canile.
Mi raggiunge presto un ragazzo tailandese tutto timido, che parla un po' d'inglese. Mi accompagna con grande cortesia in ufficio, dove mi fa fare un piccolo tour: ci sono alcuni tailandesi seduti al computer che si occupano della contabilità e di tenere il sito e la pagina Facebook aggiornati. Mi spiegano le possibilità di lavoro dei volontari: se voglio, posso recarmi lì tutti i giorni per aiutarli a portare a spasso i cani e posso pranzare con loro; viene il catering da fuori, riso con pollo o riso con pesce, costa pochissimo ed è quello che mangiano tutti, seduti per terra all'aperto, nella loro pausa pranzo di 15 minuti.
Mi accorgo che i volontari sono numerosi: parlo con una ragazza olandese che si è fatta il suo mese di vacanza lì dentro con un orario 8-19, si paga una stanza in città ed è andata al mare solo due volte, a portare a spasso dei cani.
Io una stanza me la devo ancora trovare: sono arrivata a Phuket con l'autobus da Bangkok, ho fatto una doccia a casa di conoscenti e sono partita per il canile più figo del mondo. Non dormo da almeno 40 ore, ma dopo un po' non te ne accorgi più, vivi solo in uno stato di liquorosità cerebrale.
Chiedo se posso portare a spasso qualche cane subito.
Con il ragazzo tailandese e due corde da roccia robuste, partiamo verso i recinti, passando davanti a una zona di gabbie singole. Lì ci sono i cani malati o in convalescenza, che guaiscono di tristezza ealtri cani che sono stati isolati in attesa di essere portati dai loro adottanti: è necessario che si abituino a stare fuori dal branco. Le adozioni di Soi Dog sono spettacolari: accettano soltanto le richieste che provengono da Canada, Stati Uniti e Nord Europa (no, in Italia, no) l'adottante deve presentare una serie di referenze, paga il trasporto aereo del cane ed è necessaria una catena di accompagnatori. Traducendo: per adottare un cane, spesso scassato come pochi, c'è gente che paga oltre 400 euro per il suo volo e ci sono passeggeri accompagnatori volontari, trovati con un annuncio su Facebook, che si occupano di accompagnarlo dalla Tailandia al suo Paese di destinazione. Non è un'impresa facile ma Soi Dog ha un'organizzazione perfetta: fanno loro il check-in del cane e ti forniscono tutta la documentazione necessaria; una volta arrivati a destinazione l'adottante sarà lì, e se non ci fosse ci saranno comunque gli affiliati di Soi Dog a sistemare tutto e a rimandare indietro la gabbia attrezzata per il prossimo volo. Tutto è spiegato con un video sul sito di Soi Dog.
Quanti cani, cresciuti nelle strade calde della Tailandia, abituati a territorio, gruppi di cani nemici, a branco e a rifiuti, possono affrontare un cambio di vita che comporta guinzaglio, climi freddi, camini e sofà? Quelli selezionati: comincio a capire che chiunque si occupi di questi cani, li conosce uno per uno.
Come io e il mio accompagnatore tailandese ci avviciniamo ai recinti con le nostre corde, moltissimi cani si avventano contro la rete abbaiando eccitati: sanno che c'è in vista una passeggiata e sanno anche che è un onore che non si può tralasciare. In ogni area recintata, che arriva a tenere oltre 50 cani, c'è un essere umano, accucciato sul cemento. È sempre un birmano. Sembrano vecchi e non lo sono, hanno la pelle cotta dal sole, i piedi nudi e vestono con tute larghe e scolorite. Abituati a fare la classe povera e sfruttata dei tailandesi, i birmani spesso vivono in baracche o per strada, proprio in mezzo ai cani. Parlano poco, chiedono nulla ma vogliono essere lasciati in pace. Scopro così che Soi Dog, oltre a dare lavoro qualificato a molta gente del posto, offre la possibilità a molti "barboni" di continuare a dormire all'aperto, se lo desiderano, e a vivere con i loro compagni, i cani, mentre sono comunque pagati e nutriti regolarmente.
Il tailandese dice poche parole alla donna birmana del recinto dove ci siamo fermati, che sedeva in un angolo all'ombra apparentemente addormentata sotto il suo cappello. Il suo ruolo, nel mondo degli umani, è quello di controllare i cani e di pulire con un'idrante il pavimento di cemento dagli escrementi: il pavimento infatti è perfettamente pulito. Nel mondo dei cani però il ruolo dell'essere umano nel recinto è quello del capo-branco assoluto: 60 cani di grossa taglia, abituati a difendersi e perlopiù discendenti da cani selvatici, si girano muti a fissare la birmana in attesa del suo verdetto. Lei si alza agilmente e li guarda, in cerca di chi non è uscito ultimamente o di chi ritiene che ne abbia bisogno: ne chiama due con cenni precisi della mano e mentre gli altri si allontanano in silenzio e delusi, i due cani prescelti attaccano ad abbaiare felici e fanno dei girotondi pavoneggiandosi in modo quasi ridicolo. Lanciamo le corde oltre la rete d'acciaio, lei gliele mette al collo e ce li passa scalpitanti aprendo il cancelletto di ferro, sulla soglia del quale si piazza risoluta, casomai qualcuno degli altri osasse sfidarla e provare a uscire.
Capisco che dovrò avere polso fermo: questi non sono cagnolini che hanno perso la loro padroncina. Il ragazzo tailandese mi consegna entrambi i cani e mi indica un percorso: se ne va dicendomi "torna poi indietro da questo corridoio". "Qua-ndo?" Dico io, strattonata dall'entusiasmo dei due energumeni e passando davanti a un altro centinaio di cani dietro le reti che abbaiano e si avventano contro i miei, che non tardano a rispondere, cattivi e arroganti: loro hanno il premio, agli altri credo stiano urlando parolacce di scherno. Il ragazzo mi sorride e dice: "Te lo diranno i cani" e mi lascia con le mie preoccupazioni.
Non ho molta scelta se non seguire le due bestiacce, a cui non importa nulla delle mie carezze e che mi annusano distrattamente: tirano verso un percorso che conoscono bene e che è di poche centinaia di metri. Eccolo lì lo stagno artificiale con l'erba intorno che ho visto nelle foto. Non ci credo: ci sono davvero le panchine.
Mentre corro trascinata o vengo bloccata all'improvviso perché c'è un odore interessante, ho modo di leggere le targhe: "In loving memory of Nadine, data, gentilmente offerta da Mrs. Jones, Edimburgh, Scotland". Allora è vero: la signora Jones, adottante a distanza di Nadine, le ha regalato una panchina, quando questa è morta senza mai avere avuto l'onore di dormire su uno dei suoi tappeti. Alcuni muratori tailandesi, a cui probabilmente non è mai stata spiegata la fonte del loro guadagno, hanno costruito una panchina su cui non si siede nessuno, in un posto pieno di cagnacci ringhiosi. Forse stanno ancora raccontando la storia al bar.
Ci sono molte panchine ma non ho tempo di soffermarmi su tutte. Anche sopra ogni recinto che ospita la massa di cani c'è una targa, che dice: "Quest'area è stata costruita grazie alla generosa donazione di Miss Vattelapesca, Ontario", e via così.
Prima della passeggiata con i cani avevo visito la costruzione del gattile, anch'essa fatta grazie alle donazioni, dentro la quale c'è una clinica con tavoli d'acciaio pulitissimi e l'attrezzatura di una sala operatoria. Alcune stanze piene di giochi per gatti, ponti, cuscini, tutto pulito e curato. Un recinto a prova di bomba ma molto spazio per i piccoli ospiti, comprese le mamme con cuccioli che stanno in una zona appartata. I gatti di qua sono molto belli, sottili, con gli occhi allungati e orecchie grandi. A molti manca un pezzo, ma sono adottati anche loro oltreoceano con facilità, grazie ai modi cortesi e azzeccati del loro Patron, che li aiuta tramite una campagna web costante e ben congegnata.
I due cani che mi stanno portando in giro, entrambi con delle cicatrici, sono probabilmente dei bravissimi guardiani ma non sono certo abituati alle carezze, che non hanno mai ricevuto in vita loro. Capisco anche che per qualcuno di loro è tardi per diventare veramente un cane da salotto. Sono puliti, però, e "il loro capo" birmano li conosce come nessun altro: al primo cenno di disagio fisico o psicologico, segnala agli umani il problema e loro sono prontamente assistiti. Mi hanno spiegato che l'introduzione in questi grossi branchi di un nuovo arrivato è sempre delicata e la persona nel recinto è l'elemento che rende questo possibile senza incidenti, poiché è considerata un capo indiscutibile. Mi piacciono, questi birmani: si muovono bene, osservano molto e sembrano godersi la giornata. Soprattutto è chiaro che sanno comunicare con i cani come io non saprò mai e li invidio per questo.
Finito il giro, i miei cani attaccano a tirare verso il loro recinto: capisco che là c'è la loro famiglia, i loro amici, i nemici da sfidare, capi e sottoposti. Un'intera società di cui fanno parte. E mi rendo conto che la vita ideale di un cane è questa: il branco, le sottili regole, le sfide, cibo assicurato e un premio extra ogni tanto per farsi belli con gli altri.
Io che volevo riempirli delle coccole stucchevoli di cui qui nessuno ha bisogno, tranne me, li riconsegno al loro capobranco, guardandoli rientrare orgogliosi al centro dell'attenzione di tutti gli altri, che si precipitano ad annusarli. Mi dirigo penosamente verso il recinto dei cuccioli in cerca di quello che pretendevo di dare.
Il recinto dei cuccioli è festoso e finalmente tutti mi corrono incontro in cerca di un contatto. Ci sono palloni, bastoni, giocattoli. C'è anche una donna inglese che ha fatto un salto in giornata, volando da Londra: li coccola per qualche ora e poi riparte. È tutto normale.
Annuncio in ufficio che se hanno una stanza nei dintorni mi fermerò qualche giorno. Non ce l'hanno, ma il ragazzo tailandese mi accompagnerà a Phuket in cerca di qualcosa, finito il suo orario di lavoro. È una sua iniziativa: in questo posto hanno bisogno di volontari quanto io ho bisogno di un trattore, faccio un calcolo a spanne delle donazioni che ricevono e ritengo che sia impressionante. Se lo meritano, comunque.
Prima di andare via scopro che Occhi Verdi vive nella casa che c'è lì dentro e che ci tiene comunque cinque o sei cani, che non riuscivano a stare in gruppo: ci sono cani, perlopiù abbandonati da occidentali che lasciano il Paese, che non hanno l'istinto di branco e ne vengono sopraffatti psicologicamente. Si isolano, non instaurano rapporti, non mangiano e finisco per lasciarsi morire. Sono tenuti in casa quindi, come i cani dei paesi ricchi, e dormono sul divano, cosa che alla maggior parte dei loro colleghi, molti dei quali recuperati adulti dalle strade perché in condizioni di non potere più sopravviverci, forse non piacerebbe.
Passiamo a salutare i cani anzianissimi e tranquilli, che sono in un recinto a parte, con l'erba, e poi salgo su uno dei furgoni con l'insegna di Soi Dog. Il mio amico tailandese vive a Phuket, con la sua ragazza e un paio di cani, naturalmente. È felice di lavorare lì, proprio felice. Ama i cani e non è una cosa comune dalle sue parti. Siccome io sono senza auto, se voglio mi passerà a prendere tutte le mattine alle 9 e mi riporterà in città alle 17.
Quando arriviamo dall'affittacamere tailandese vicino a casa sua, però, non ci sono più stanze libere: lui rimane mortificato e incerto sul da farsi. L'affittacamere è scortese e non vuole fornire indirizzi alternativi.
Un occidentale, che ci ha osservato dalla verande per tutto il tempo, si alza e mi viene incontro: è uno di quelli che amano definirsi Espat e che hanno girato il mondo, soprattutto quello del turismo sessuale. Sono tutti degli ex manager di non sanno bene cosa, hanno delle macchie rosa acceso sul cranio pelato e gli occhi luccicanti degli insetti. Insomma, non mi piacciono, e non piacciono neppure al mio amico tailandese a quanto pare, perché arretra con la testa bassa, facendomi cenno di andare. L'espat vuole sapere di dove sono e si rigira in bocca la parola "italiana" come se fosse cibo. Decide poi di concedermi l'informazione e mi da il nome di un altro affittacamere, "pulito, economico e senza gentaglia" in omaggio forse alla mia bellezza ora per lui esotica o forse al suo passato di essere vivente prima di diventare uno zombie dei vicoli. Si rivolge al mio amico tailandese nella sua lingua e con tono di comando gli spiega dove portarmi.
Risaliamo in furgone e il tailandese è molto imbarazzato. Lo rassicuro con quel poco di inglese che capisce e sistemiamo tutto con un sorrisone: sono certa che l'affittacamere è buono e in effetti lo è. Anche lì però non spiccicano una parola d'inglese, per fortuna che c'è lui.
Sono disfatta ma faccio un giro camminando verso il mare: motorini smarmittati ovunque e cani sul ciglio della strada. La spiaggia è coperta di lettini e il lungomare è pieno di chioschi e negozi. So che ci sono delle baie belle lì intorno, ma non ci posso arrivare. È Gennaio, ancora alta stagione: girano coppie di giovani russi tatuati in viaggio di nozze e di turisti occidentali vecchi con ragazzine del luogo. L'italian pizza e il Mohito sono ovunque. Mangio un cocco e vado a nanna sognando i miei cani di Soi Dog. Chissà se la notte c'è silenzio o è tutto un ululare alla luna.
Il giorno dopo mi faccio trovare in strada puntale. Il mio amico passa a raccogliermi e trascorro il breve tragitto a farmi istruire sui mazzetti di foglie verdi appesi ovunque all'interno del furgone: è basilico tailandese, una pianta che porta bene e dal profumo buonissimo, mi spiega. Il profumo di quei mazzetti a me pare esattamente quello di una salsiccia: ai cani deve sembrare delizioso.
Al canile c'è fermento: sterilizzazioni in corso, donatori e visitatori che affondano le loro ciabattine nel fango e comprano la maglietta di Soi Dog. I capi bianchi non si vedono.
Allatto un po' di gattini con un biberon e li restituisco alla loro mamma fasciata, reduce da una pentolata di acqua bollente: non può camminare e ha gridato tutto il tempo in cui i suoi cuccioli sono stati assenti. Aiuto a cambiare la fasciatura di un grande bassotto randagio, che è stato aggredito da uno squilibrato al mercato, che gli ha ripetutamente accoltellato gli occhi. Passo da Shiver, il cucciolo famoso, recuperato tremante e ricoperto di croste, che ora è un giovane adulto argentato un po' diffidente: è grazie alle donazioni ricevute per la sua storia che adesso esiste un recinto per i cuccioli con il suo nome, dove lui gira impettito, unico adulto seguito diligentemente da tutti i piccoli. Non avevo mai visto un cane tirarsela in quel modo.
Sono tenuta distante dai cani con malattie della pelle, finché gli operatori non capiscono che non mi fanno senso e che so che non sono infettivi: a quel punto mi danno un paio di guanti di lattice e una garza pulita, posso andare ad aiutare. Non ne sono felicissima, perché so quanto soffrono e quanto possono essere nervosi: hanno tutti dei denti da squalo ma nessuno lì sembra preoccuparsi e io nascondo la fifa. Lo faccio così bene e sono così curiosa di tutto, che il mio amico tailandese decide di farmi un regalo speciale: nel pomeriggio accompagnerò l'accalappiacani, c'è una cattura da fare.
La gente di Phuket sa che il canile esiste, e dopo un'iniziale diffidenza, molti ora preferiscono chiamare Soi Dog piuttosto che uccidere un cane se lo vedono malato o ferito. Altri si offrono timidamente di tenere temporaneamente dei cuccioli da allattare: sono solitamente donne povere e sole a cui viene passato tutto l'occorrente e anche qualcosa di più.
Monto sul furgone con un birmano dall'aria feroce e i modi sbrigativi. Ha delle mani molto callose e guida a piedi nudi. Non parla inglese ma io mi ricordo ancora il nome del basilico alla salsiccia e sul suo fantastico profumo ci facciamo grandi annusate e sorrisi compiaciuti. È solo quando arriviamo nel retro del cortile dove è stato imprigionato il cane che dobbiamo catturare, che smetto di sorridere: non avevo mai visto prima un cane idrofobo. È grosso, ha la bava alla bocca, perde sangue dalle orecchie e continua a inciampare senza equilibrio. Abbaia e ringhia disperato, pronto a uccidere. Il birmano smonta dal furgone come se niente fosse e se ne frega se lo seguo o meno. Io scendo di riflesso, ma me ne pento subito: il cortile è di tre metri quadri e il tailandese che ci ha chiamati ci chiude dentro fuggendo poi a gambe levate. Questa volta una vocina mi dice che se tutti i turisti se ne vanno in spiaggia un motivo c'è, furbona che non sono altro.
Il birmano mette una mano in una tasca sdrucita, mentre si muove dondolando come un cobra davanti al cane idrofobo. Caccia una stringa di scarpa, tutta ciancicata, annodata a cappio. Con una mossa semplice, fluida e velocissima, avvicina la mano al muso del cane e lancia il suo piccolo lazo: ha un solo tentativo a disposizione per bloccargli le fauci, ma sono sicura che non sbaglia mai. Messa la museruola di fortuna la stringe velocemente, tira, il cane cade e lui lo prende in braccio. È successo tutto in un minuto. Il cane è semisvenuto e ringhia ma non riesce a muoversi molto. Aiuto a trasportarlo perché peserà quaranta chili: puzza come un cadavere e scotta. Sul retro del furgone il birmano gli lega le zampe e gli bagna il muso. Con un altro movimento magico, gli slaccia il laccio fatto con la stringa e lo fa rotolare in una gabbia, prima che lui abbia il tempo di morderlo.
Partiamo e il tragitto si fa in silenzio, senza sorrisi. Ho la testa divisa a cubetti, tra l'ammirazione, l'allarme, l'offesa per il rischio che mi ha fatto correre, la voglia di raccontare questo a qualcuno, le domande sulla sorte di questo cane, sulla sua malattia. Per fortuna non parliamo la stessa lingua, sennò sono certa che nell'agitazione gli chiederei qualcosa di stupido, tipo: "Sei vaccinato?".
Arriviamo a un garage: dentro ci sono gabbie di rete di ferro che ospitano cani malconci e infettivi per gli umani. Il cane viene trasferito in una delle gabbie e capisco che il veterinario, uno con le palle, passerà successivamente. Il cane giace sfinito e gli altri reagiscono appena. Il birmano apre le gabbie, infila le mani con cibo e acqua, pulisce velocemente, mette un po' di segatura. Imparo così qual'è l'atmosfera di un lazzaretto.
Però c'è un gatto. Bianco e rosso, libero e in salute, ci osserva accucciato sulla grata superiore di una delle gabbie. Il cane sotto di lui brontola minaccioso ma il gatto è serafico. Lo indico al birmano, che lo guarda facendogli un cenno della testa, come fosse un vicino di casa. Lui stringe gli occhi un attimo. Niente cibo per lui: è lì per simpatia. Ce ne andiamo chiudendolo dentro, tanto esce dalla parte superiore che è aperta. Capisco che è lì in attesa dei topi attirati dal cibo nelle gabbie.
Il birmano è il mio nuovo mito. Mi riporta al canile senza una parola e quasi non mi saluta. Di lì a due mesi tornerà a vivere in strada, per sua scelta, con i suoi amici cani, rinunciando allo stipendio, a un tetto, ai pasti sicuri e a guidare un furgone. Lo staff di Soi Dog lo saluterà regalandogli un cellulare per le segnalazioni e ringraziandolo per l'impagabile servizio con una sua foto e un l'annuncio della sua partenza sulla pagina Facebook, che raccoglierà più di centomila tra like, cuori, messaggi di affetto in molte lingue che il loro destinatario non vedrà mai. Non ha voluto denaro, e questa volta ci credo.
La pagina del sito di Soi Dog negli anni si è riempita di foto, è diventata sbrigativa e ora assomiglia a quella di molte altre organizzazioni simili, ma non è così: la quantità di aiuti, collaborazioni, pubblicità, eventi, donazioni e adozioni che questo posto riesce ad organizzare è impressionante. Leggendo attentamente i link, guardando i video, le foto e le storie, credo che molti di coloro che vogliono aprire un'organizzazione simile troverebbero qualcosa da imparare.
E se una volta dovesse capitare di passare da Phuket, per caso o apposta, come è stato per me, questa gita può essere davvero interessante, per chi ama gli animali. Gli accompagnatori di ritorno in occidente, disposti ad accompagnare cani che hanno avuto una vita in molti casi più avventurosa della loro, sono sempre i benvenuti.
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