Il Canto della Sirena

Creato il 05 aprile 2013 da Marino Maiorino
L'estratto che pubblico oggi è buona parte del XVI capitolo, Il Canto della Sirena, nel quale molte cose vengono finalmente spiegate sulla vicenda narrata.
Gavio, uno dei protagonisti, torna nel sottosuolo di Neapolis per incontrare una seconda volta la Sirena Parthenope. Ecco come si svolsero i fatti.
[…]
Il giovane si addentrò nel dedalo sotterraneo rapidamente. Questa volta portava con sé due torce: l'esperienza di Nymphios gli aveva insegnato che se Parthenope non avesse voluto farsi trovare lui avrebbe potuto trascorrere molto tempo in quei bui cunicoli. Non era certo la familiarità a guidarlo con sicurezza, quanto piuttosto l'ansia di sapere, la sua autentica debolezza, il suo vizio. Giunse alla caverna della sirena in molto meno tempo di quanto ricordasse necessario e chiamò con premura e rabbia allo stesso tempo: «Parthenope! Parthenope!»
L'acqua delle vasche si ritrasse improvvisamente al suono della sua voce, quasi la punizione divina per un sacrilegio, quasi la natura che si ribellava all'ennesimo atto di tracotanza di quell'essere rozzo ed ignorante chiamato “Uomo”, montò in un'onda schiumante e fece come per schiantarglisi addosso quando l'inconfondibile, candida sagoma dell'enorme donna-civetta vi si parò innanzi fulminea, distendendo le ali tra lui e l'onda elementale.
«Calmati, Sepeithós!», gridò lei con autorità. Poi, più dolce, «Non fargli del male, vecchio amico!»
L'onda si ritrasse nella sagoma di un poderoso toro dal volto umano, la barba fluente, riccia e gocciolante, la pelle imperlata d'acqua, come acqua su acqua, giacché le sue carni erano come un fluido in perenne movimento.
«È questi Gavio?», chiese la cosa che la sirena aveva chiamato Sepeithós. «Che strano spirito alberga in lui!». La sua voce era come lo scroscio di un torrente impetuoso, potente e profonda, eppure musicale. E lo stava soppesando.
«Te l'avevo detto, no?», rispose lei, riacquistando sembianza di fanciulla. Poi si rivolse al giovane con asprezza. «Cosa fai qui? Tutto quello che avevo da dire l'ho già detto a Nymphios. Cosa c'è, l'età lo ha rimbambito? O credi che per te ci sia qualcos'altro che non ho detto a lui?»
«No», Gavio abbassò lo sguardo temendo di essere aggredito come lo era stato il padre, ma si impose di non arretrare, «non è nulla di tutto ciò. Nymphios è ancora saldo di corpo e di mente, e le tue parole si sono scolpite nella sua memoria come nella pietra, anche se il ricordarle lo strazia come il fuoco. Ma ciò che gli hai detto ha gettato me nel dubbio e nello sconforto, perché io amo la tua città, ed ho sofferto nell'udire quel che il fato le riserba».
«Tu, un Saunita, ami la mia città!», lei lo guardò con meraviglia, ascoltando quelle parole come una donna oltraggiata accoglierebbe una carezza: una piccola gentilezza dal sapore dell'ambrosia al termine di una lunga serie di degradanti vessazioni. Versò una lacrima, e rabbia era frammista al dolore. «I miei stessi figli non l'amano!
«Tutta la mia vita li ho sentiti dentro di me ragionare nella loro boulé di quelli che essi chiamano “affari di stato”: volgari corruttele, giochi di potere della più bassa lega, laidi compromessi, sordidi scambi di sordidi favori, quando non trappole per l'avversario, vendette miserabili, meschine e di poco conto, ignobili cambi di partito e tradimenti a danno delle idee e del popolo.
«Che cosa non hanno concesso gli uni agli altri per un seggio nella boulé, per una somma di denaro, per diventare tesoriere di questa o quella fratría? Hanno corrotto i loro figli nell'efebeio, le loro figlie, le loro mogli, sé stessi, hanno venduto la loro, la mia polis, le loro leggi! Hanno permesso alla tracotanza sannita di avere la meglio sulle loro imprendibili mura per puro tornaconto personale, hanno venduto la libertà della mia città per arricchirsi!
«Ma affronto peggiore sono le loro risibili giustificazioni: la “ragion di stato”, la “sicurezza dei cittadini”, il “benessere della polis”... e scusano il loro operato così, come se gli dei fossero tanto ciechi da non vedere che ciò che li muove sono ingordigia, avarizia, sete di potere, lussuria, fini a sé stessi.
«Eppure», piangeva ora di impotenza, né più né meno che una madre abbandonata a morire da figli disonesti, «la mia mano deve fermarsi, la mia ira è frustrata, perché il dominio degli Uomini è iniziato e non mi è concesso colpire chi mi arreca offesa giorno per giorno, chi fa della mia città, di me, un postribolo per mercanti arricchiti.
«Sanno essi cosa ho fatto per loro? Nella loro prepotente ignoranza, sanno essi come nasce e diventa grande una polis? Se glielo chiedi, ti diranno che i commerci, il denaro, l'arrogante potenza dell'esercito e della marina, queste cose rendono forte, stimata e temuta una città. Non la fedeltà agli dei, non lo spirito di fratellanza e mutuo soccorso dei cittadini, non il vivere la polis in quanto politai e il dedicarsi ad opere virtuose in quanto appartenenti ad una stessa comunità, aiutandosi l'un l'altro nel raggiungimento di quelle.
«Se rispondessero in questo modo, potrei almeno scusarne l'ignoranza ed apprezzarne l'ingenua sincerità, perché non è giusto considerare una colpa la mancata conoscenza di ciò che non è dato sapere, dei poteri che agiscono occulti per far riuscire o fallire i nostri intendimenti…»
Avrebbe proseguito così per ore, tormentando il giovane con le sofferenze patite durante lunghi anni, incapace di tenere a freno quella sua dote di rendere reali le parole pronunciate, ma durante tutto il suo monologo Sepeithós si era fatto sempre più nervoso, fino ad interromperla con un sonoro colpo di zoccoli quando ella aveva toccato determinati argomenti. La sua voce si ruppe e si fermò. Negli occhi covavano ancora furiose l'ira e la sete di vendetta. Strinse i pugni lungo i fianchi nel tentativo di domarsi, ci riuscì a stento.
«Non è vero!», Gavio cominciò la sua difesa dapprima sommessamente, poi acquistò coraggio facendosi forza con i suoi stessi argomenti, «I Neapolitani non se ne rendono conto, forse, ma io li ho visti, ed essi non avrebbero dove altro vivere, senza di te.
«Parthenope, io non ho il tuo potere di sentire quanto si dice dietro porte chiuse o quello che cova nella mente, nei cuori delle persone, però so vedere coi miei occhi. Quanto dici è forse vero soprattutto per una certa parte della popolazione, purtroppo quella che dovrebbe eccellere nelle virtù perché, grazie alla tua benevolenza, avrebbe le migliori opportunità di coltivarle, ma non lasciare che anche la tua mente sia offuscata dallo splendore delle case e degli abiti: rivolgi il tuo pensiero ai più umili e troverai lì, dove meno te l'aspetti, tra fame, difficoltà e continue umiliazioni, un popolo che protegge il proprio vicino e lo straniero, che ama i propri figli e li difende contro ogni cosa, che soccorre il bisognoso nella difficoltà perché si sente affine a quello, che ti concede un'amicizia duratura e sincera senza guardare alle tue vesti, che vive in una polis eppure segue le più sacre e semplici leggi della natura.
«Chi erano i Neapolitani disposti ad intrattenersi con me quando sono giunto in città come un giovane cavatore di pietre superbamente e risibilmente interessato alla filosofia se non questo popolo minuto, lontano dal potere, dai suoi giochi e dai suoi vizi?
«Crederai forse che le difficoltà rendono virtuoso ogni uomo, ed aperto allo sconosciuto, eppure ti dico che così non è. In Capua, dove sono nato, di certo non una città di poco conto, e dove non conducevo una vita disagiata, troveresti assai poche persone, anche tra gli umili, capaci di guardare ed accettare una persona, un estraneo, per quello che é. La lussuria, l'avarizia, l'alterigia, la prepotenza, l'inerzia, la pochezza di spirito, sono appannaggio dei più, ed esercitati ad un livello talmente basso che sono vizio nel vizio.
«Lì ho visto le persone più umili ed ignoranti millantare d'aver frequentato le migliori scuole di filosofia, giovani scialacquatori gettare i propri scarsi averi per una toga bordata di murice o una biga fiammante da mostrare in pubblico, le migliori energie di generazioni spese in atti di villania a danno di quei pochi che ancora spendono la loro vita dedicandosi al duro lavoro, il costituirsi di piccoli eserciti disposti ad affrontare qualunque nemico in terra straniera con l'assurda promessa di facili ricchezze, eppure incapaci di piegare la schiena ad un aratro per coltivare la più fertile, la più generosa delle terre.
«E la corruzione, delle persone e dei costumi, è lì massima. Il cittadino dà il proprio voto al candidato che più promette, non al migliore per il benessere della comunità e, pur vivendo in una terra benedetta dagli Dei, tutti cercano invano un modo per arricchirsi facilmente ed abbandonare così il poco di cui sono padroni per andare a trascorrere una vita da schiavi dei vizi in qualche polis della quale vagheggiano, ma che non conoscono benché minimamente.
«Io ho abbandonato tutto ciò. Se puoi leggere nelle menti, leggi dunque che ti sto dicendo la verità, ed abbi un'altra opinione della tua polis. Leggi che quella che ti è venuta in odio non è la peggiore delle città, al contrario. Essa è colta ma non nobile, umile e corrotta secondo la natura degli uomini. Io comprendo i tuoi sentimenti di rabbia, ma vorresti condannare tutta la polis per i peccati di pochi?
«Io non conosco le leggi alle quali obbedisci, quelle che regolano la tua esistenza, ma se tra esse e le umane vi è una minima affinità, non trovo nulla di disdicevole nel tutelare una polis di umili ma ricchi di cuore».
[…]
«Gavio, cosa vuoi sapere da me?», chiese di nuovo lei, con una luce nuova negli occhi, «ancora non hai detto perché sei venuto fin qui».
«Io voglio che tu mi dica tutto, tutto quello che sai sul futuro della tua città, perché a te è dato esprimerti con rime oscure, ma non di comprenderne il senso, è così? Non è forse così per tutti gli oracoli?»
«Non nutrire false speranze con me!», lei lo rimproverò. «Sai bene che io non sono più fedele ad Apollon il vanamente brillante. Sai bene che le mie parole ora giungono dalla saggezza di Athena, al cui lucido intelletto nulla è celato!»
[…]
«Non desidero arrecare offesa alla Dea ma, al contrario, onorarne il lignaggio venendo a dialogare con Lei e pregandoLa ch'Ella illumini le tenebre della mia scarsa comprensione».
A quelle parole, Parthenope rimase fulmineamente paralizzata, gli occhi e la bocca spalancati. Le parole «Chiedi dunque, la Dea ti ascolta!» uscirono dalle sue labbra senza che quelle si muovessero, pronunciate da una voce diversa, infinitamente più solenne, infinitamente distante. Gavio in un primo momento non sapeva come reagire, poi vide che Sepeithós s'inchinava ed, arretrando, face anche lui lo stesso. Senza sollevare lo sguardo, parlò.
[…]
Gavio ricevette quelle due ultime strofe come una percossa dentro di sé. Aveva temuto in cuor suo che il senso della profezia potesse essere esattamente quello, ed ora… «Ti prego, lasciami un'ultima domanda. Non riesco a porla diversamente, e te ne chiedo perdono. Quando…»
Parthenope si riprese all'istante e guardò Gavio con un'espressione di estasiata meraviglia. «Lei era dentro di me!», disse, accarezzando il proprio corpo come per afferrare con le mani una sensazione di infinita pienezza e completezza.
«E mi ha dato una risposta degna di una Dea», rispose lui.
Erano restati tutti e tre così, fermi per un po', guardandosi istupiditi, cercando di realizzare di quale prodigio fossero stati partecipi, un uomo, una sirena nella sua forma di fanciulla, un toro d'acqua dalla testa di uomo. Sepeithós fu il primo a reagire.
«Non ti era mai successo così!», osservò all'indirizzo di Parthenope.
«È vero!», assentì lei. «La Dea ha sempre parlato a me, ma la sua voce era sempre distante. Questa volta... Amico, perché questa volta è venuta sin qui a rispondere di persona ad un mortale?»
«Amica», lui le si accostò con dolcezza, «conosci già la risposta: la Dea tiene a cuore quest'oracolo, e ciò significa ch'ella tiene a cuore la polis. Quest'uomo è venuto a chiedere non per sé, ma per la polis».
«Ed allora le sue parole sono vere ed il suo cuore è sincero», realizzò lei. «Gavio, sei uno strano uomo davvero. Possibile che Nymphios abbia visto con maggior acume di me? È dunque nel giusto chi dice che solo ad una pecora le altre pecore appaiono diverse!
«Tu non sai né puoi immaginare il senso di ciò che è accaduto in tutta la sua portata, e puoi afferrarne solo la parte relativa alle tue domande, ma per ciò che io comprendo, ti devo riconoscenza. Cosa posso fare per dimostrartela?»
Il primo pensiero di Gavio fu No! Niente!, perché il terrore e le altre emozioni, tutte acutissime, lo paralizzavano, ed egli aveva a lungo considerato le parole del padre, e conosceva i miti, e temeva per sé stesso.
Poi la consapevolezza di quanto accaduto si affermò in lui, e seppe che Parthenope sarebbe stata molto accorta, non avrebbe arrecato danno a colui al quale la stessa Dea aveva rivolto la parola, e con questa consapevolezza si fece coraggio, osò.
«Canteresti per me?», pronunziò le fatidiche parole d'un fiato, quasi temendo che da un momento all'altro la paura gliele avrebbe fermate in gola.
E lei non lo ammonì, né se lo fece ripetere, e profuse nel suo canto tutta l'arte della quale era dotata. E nei suoi occhi sgorgarono in un primo momento lacrime copiose, perché ella stessa temeva il proprio dono avendone visti gli effetti su tanti altri uomini prima di quello, eppure non poteva fermarsi: come potrebbe fermarsi il martello nella mano del carpentiere dal colpire il chiodo per tema di fargli danno? Al contrario, ella cantò, ed il suo canto era di una bellezza sublime, ed Odysseos non aveva mai udito nulla del genere perché, se quel giorno ella avesse cantato in quel modo, Ithaka non l'avrebbe mai più rivisto.
Oh, il canto, il suo canto! Gavio lo sentiva, e lo vedeva! Le cose che egli udiva prendevano forma davanti ai suoi occhi, e senso, e consistenza. Esse erano realtà, in una sinestesia perfetta e completa, che non era quella, pure prodigiosa, di chi alle volte associa un determinato suono ad un determinato colore; esse erano la parola “madre”, e con quella il volto, l'abbraccio avvolgente e protettivo, l'odore della pelle e delle buone cose da quella preparate, il loro sapore ed, ancora oltre, il suono di una ninna nanna da quella cantata, ed ogni piccola vergogna, ogni piccolo orgoglio da quella ricevuti.
Gavio venne meno.
E con questo ho finito gli estratti che desidero e posso proporvi senza rovinare del tutto il gusto del leggere il romanzo.
Ma ormai manca poco: tempo un mese e Neapolis sarà presentato e … Cosa farò, dopo?

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