Il capitale umano

Creato il 06 febbraio 2015 da Valentina Orsini @Valent1naOrs1n1
 
 Dai toni caldi e esasperati, e dai sogni tenuti a fatica nel cuore della periferia di Roma, Paolo Virzì compie un passo decisivo, come uno stacco necessario, attraverso il quale tutto il baricentro della sua filmografia si sposta. Si sposta e provoca un netto sbalzo, permettendo così a se stessa di cambiare sfondo, rimanendo tuttavia saldamente ancorata all'occhio attento, bramoso di verità. E l'occhio di Virzì scruta l'uomo e la donna fin dentro le viscere, apre le porte di una casa di lusso e permette a tutti di vedere come vive una famiglia altolocata, in Brianza. E fa lo stesso con la famiglia più modesta, collocata leggermente più in basso rispetto a quella del freddo Bernaschi. Nonostante il Dino Ossola di Fabrizio Bentivoglio ricordi una maschera della Commedia dell'Arte, sfacciato, opportunista, un po' ruffiano, il film è nell'insieme un dramma dal sapore noir. Virzì procede lungo una suddivisione in capitoli, sono quattro in tutto, e ognuno di questi porta lo spettatore a ritroso, a partire da un prologo abbastanza evidente, verso la verità che spieghi una volta per tutte i fatti. L'intenzione è quella di mostrare come la morte accidentale di un perfetto estraneo, possa stravolgere le vite di due famiglie in realtà tanto diverse, eppure lacerate dagli stessi drammi interni. L'incomunicabilità, l'ipocrisia, i sorrisi bugiardi, il bisogno di apparire sempre senza un capello fuori posto. La disperazione che diventa sfacciata adulazione, la noia che annienta e i sogni che tornano alla memoria, in superficie, dentro la pelle.  Il personaggio di Valeria Bruni Tedeschi è emblematico in questo senso, una donna svuotata dal troppo rimbombante tra le pareti di una super mega villa con piscina interna e campi da tennis. La scema, la matta che aveva il pallino del teatro, quella che incontri per caso prima di una cerimonia e la vedi in macchina sola, gridare come se le stessero strappando il cuore dal petto. A fare da contraltare la donna interpretata dalla Golino, un po' troppo presa dalla sua stessa vita, in dolce attesa di due gemelle e all'apparenza svampita. Ma forse uno dei pochi personaggi positivi di questo dramma corale. Il ritmo è serrato e segue, senza tradire l'attenzione dello spettatore, le storie dei protagonisti. Vivendo e respirando le corse e i pianti dei figli non più adolescenti, alle prese con la vita che non perdona, alle prese con le verità inconfessabili eppure così manifeste. Significativa la reazione del figlio dei Bernaschi, ragazzone alto coi capelli lunghi e imbronciato. Il muso e la distanza frapposta tra sé e la madre, appare agli occhi di lei come la conferma ultima di colpevolezza. E quell'uomo entrato di notte in casa? E quel bacio?  Il dramma di una vita distrutta, quella del ciclista, si fa pretesto di un'analisi sociale e intima, in grado di smascherare ogni ragione, pensiero, gesto. E al di là della disgraziata sorte di un ragazzino nato sotto una cattiva stella, al di là dei malintesi e dei pregiudizi, rimane un solo ed unico dramma. Quello di una vita morta ammazzata ai bordi della strada, per la quale ci si chiede se sia grave o meno, per la quale ci si sporge in avanti, a vedere se è vivo oppure già "andato", con il solo e unico scopo di trovare un appiglio, che ci liberi, e che ci dia una bella ripulita alla coscienza.Di quella vita, di quel poveraccio, rimane una cifra derivata da un calcolo mai abbastanza figlio della giustizia. Rimangono i tentativi disperati e ridicoli di uomini disposti a tutto, pur di veder fruttare i propri quattrini. Rimane l'indifferenza di tutti, anche la nostra, di fronte a una donna che piange sola, la morte di un poveraccio, capitale umano di quarta o quinta categoria. Ancora una volta, "Grazie Virzì".  

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