Liberamente ripreso dall’omonimo romanzo statunitense di Stephen Amidon, Il Capitale Umano di Virzì apre questa annata per quanto riguarda il cinema italiano “impegnato” e lo fa, sin dalla copertina, con una carrellata dei più bravi attori italiani in circolazione al momento, sia uomini che donne, la maggior parte dei quali non siamo soliti associare al regista in questione.
Un’altra novità è l’aspetto estremamente curato e nitido della fotografia, veramente poco “italiana”, non a caso il direttore della fotografia è lo stesso dell’eccellente Nella Casa di Francois Ozon, il che conferisce a Il Capitale Umano un look decisamente transalpino, da thriller francese, un altro punto decisamente a favore del film e che lo fa distinguere e salire di livello rispetto ad opere analoghe.
Tecnicamente ineccepibile sotto più aspetti, Il Capitale Umano può vantare anche una salda struttura narrativa che lo valorizza e che lo rende più accattivante, composta da quattro capitoli e da un stile di montaggio interessante, anche se un po’ visto in giro.
Amalgamare il tutto non era dopotutto così semplice, anzi piuttosto rischioso: la base di un romanzo americano ambientato nel Connecticut, le intenzioni da thriller francese, la vena sociale-politica di Virzì con i suoi personaggi, a cui vanno aggiunti i ritratti dei ragazzi probabilmente ad opera dello sceneggiatore Francesco Bruni (Scialla!) e che non possono che ricordarci quelli di Caterina va in città (compreso il rapporto genitori/figli).
Questa operazione è per fortuna complessivamente riuscita e al box office sembra avere, dopo il primo week end, un discreto margine di successo, calcolando che non si tratta di una commedia: quando un film italiano leggermente fuori dai soliti soliti va bene al cinema, non può che essere un dato positivo in generale. Rimangono però alcune ombre riguardo Il Capitale Umano, o almeno a proposito del suo sottotesto e/o delle interpretazioni a cui facilmente il film si presta, in particolare il marketing costruitovi intorno.
Considerare il ritratto umano delinato da questo film come qualcosa di tipicamente italiano è il primo errore, suggerito dalla caratterizzazione di personaggio un po’ troppo azzeccagarbugli arraffone pulcinella Dino (Bentivoglio). Pensare che Il Capitale Umano sia un esempio della corruzione/decadenza italiana, la quale a sua volta sarebbe fondamento della crisi, assieme alle bolle speculative finanziare, è un atto di grande superficialità e generalizzazione che uno spettatore avveduto dovrebbe evitare, in quanto scorciatoia semplicistica e deviante.
Il primo motivo per evitare questi luoghi comuni è che il meccanismo della speculazione finanziaria descritto nel film (quello dei derivati) è un fenomeno che descrive bene l’America e la sua crisi ma non la nostra crisi (2010-soprattutto 2011) ben diversa e distante nel tempo da quella della Lehmann (2008): del resto anche la proporzione di persone comuni che investono nel mercato finanziario in Usa e di persone che giocano con titoli/fondo di un certo tipo qui non è assolutamente paragonabile (da noi insignificante in confronto) quindi perchè si dovrebbe trattare di un film esauriente sulla questione e crisi italiana?
Il secondo motivo è che la morale della storia è che il potere dei soldi è un’idra che risorge e che fa spesso corrodere chi non lo ha, fatto che avviene davvero ovunque, non solo in Italia, motivo in più per non commettere l’errore di considerare questo ritratto come un qualcosa di totalizzante e descrittivo in toto o in generale della nostra società. I vostri cari, i vostri affetti, quelli che conoscete sono davvero tutti così imbroglioni e trafficoni o sarà una tendenza generale a puntare il dito, a fare la morale facile, ad avallare un luogo comune che va un po’ di moda da qualche anno?
Agli spettatori e ai commentatori l’ardua sentenza.