Se la provocazione fosse arrivata da un regista milanese, i brianzoli avrebbero replicato con la solita filastrocca: “È solo invidia. Il Duomo di Monza non ha niente a che vedere con quello di Milano.” Invece arriva da un toscano, anzi no da un livornese. Come replicare? Avessero l’inguaribile umorismo in stile Vernacoliere, potrebbero prendersi meno sul serio e scrollarsi di dosso i tipici pregiudizi dei provinciali che vogliono passare per quelli senza la puzza sotto il naso.
Ricordo la battuta di un agente immobiliare di Lissone qualche anno fa: “Dopo aver visto al cinema Gomorra, non volevo più vendere case ai napoletani”. Meno male che non aveva visto il meraviglioso “Io speriamo che me la cavo” della Wertmüller, altrimenti chissà quale altra idea si sarebbe fatto di noi meridionali
La Brianza non è abitata solo da disonesti, così come la mia Napoli o la Livorno di Virzì, ma anche da tanta gente semplice e perbene. Ci mancherebbe. Tuttavia, ricordiamo a chi lo avesse dimenticato che il cinema non è un passatempo qualsiasi, ma un osservatorio privilegiato di ciò che accade intorno a noi. Il polverone e le polemiche dei giorni passati mi risultano inutili e sterili così come, negli anni del potere andreottiano, si diceva che le pellicole del Neorealismo erano state nocive per l’Italia, perché “i panni sporchi si lavano in famiglia”.
Nel 1997, al Festival del cinema di Venezia, feci sorridere Paolo Virzì. Alla mia bizzarra richiesta di mangiare assieme un piatto di cacciucco a Livorno, mi rispose: “Quando farò un film con tanti spunti di riflessione”. E’ arrivato il momento.