Il capitano era di quelli del coraggio

Da Iomemestessa

Questo è un post che ho faticato a scrivere. Perchè è più facile sfottere, che dire, ammettiamolo pure.

E questa è un’occasione in cui di sfottere mi mancava la voglia.

Per contro, la cronaca mi offriva un esempio talmente paradigmatico di quanto ampiamente espresso in alcuni post recenti, che prima che se ne ripresentasse un altro altrettanto esemplificativo, si rischiava passassero secoli.

Negli ultimi tre giorni un’azienda sanissima, e con bilanci ampiamente in utile, quale Luxottica, si è sputtanata, sul mercato azionario, 1,82 miliardi (sì, miliardi, non mi sono rincoglionita) di euro di capitalizzazione.

Son valori virtuali, ma reali, realissimi, sono i 70 milioni di Euro che Leonardo Del Vecchio ha dovuto tirar fuori di tasca propria (cioè dalla holding in cui ha riposto i beni di famiglia) per evitare sfracelli anche peggiori. E 70 milioni di euro son tanti pure per lui, eh.

Detto ciò considerate che un investitore medio che avesse diecimila euro investiti in titoli Luxottica, ne ha persi circa mille. E fatevi un film di quanto vi girerebbero le palle.

E questa volta non ci sono poteri forti (o deboli) da accusare, o circoli Bilderberg da sospettare. Questa volta il mercato ha, con crudezza, messo in risalto il fatto che i re, in Italia, son nudi.

Leonardo Del Vecchio è una delle più grandi figure imprenditoriali del dopoguerra italiano. Insieme ad Adriano Olivetti, forse, la più grande.

Perchè ha saputo coniugare un’idea (vincente), il coraggio di realizzarla, il restare fedeli ai propri valori e l’essere una persona perbene. Qualcuno dirà, perchè non è nato col ‘culo nel burro’ (cito la Pellona). Non credo. Persone perbene, si è o non si è. Mica che tutti gli ex Martinitt sian diventati persone perbene. E Olivetti, peraltro, c’era nato affondato, nel burro, se è solo per quello.

La storia di Del Vecchio imprenditore è talmente straordinaria che non merita di essere offuscata da passaggi da libro Cuore. Perchè l’uomo, una decina di anni fa, qualche anno dopo la quotazione in Borsa, ebbe un’intuizione che lo renderà davvero unico nel panorama italiano.

Passa dietro le quinte e affida la gestione a un CEO, molto bravo, che per dieci anni conduce da par suo l’azienda. Ad agosto, il CEO si dimette.

Ora, questa gente, tra stipendi, stock options, e minchiate varie  guadagna più di ciò che tutti noi, raggruppati tireremo su in tutta una vita di lavoro. E un posto come quello non lo molli perchè una mattina ti sei svegliato con le balle girate. Un perché ci sarà. Ma è estate e siam tutti al mare (a mostrar le chiappe chiare)

Succede poi che viene nominato un altro CEO. Una figura esperta, interna. Si suppone che sia un avvicendamento scelto e gestito, e insomma, se pure Apple può fare a meno di Jobs, Luxottica potrà anche andare avanti senza Guerra. Ma se anche il secondo CEO si dimette dopo appena un mese, facendo balenare tra le righe dissidi occasionati dall’ingerenza nella gestione da parte della proprietà ma soprattutto della di lui moglie, allora i mercati, comprensibilmente, si scatenano.

La faccenda, però, evidenzia alcuni aspetti che sono il punto di debolezza più evidente del capitalismo italiano, aspetti che, puoi essere anche Del Vecchio, non si possono e non si devono (più) sottovalutare.

Primo.

Ormai molti imprenditori hanno accumulato più famiglie nel corso di una stessa vita. Nello specifico caso 6 figli da tre mogli diverse. E quando fra il tuo primogenito ed il tuo ultimogenito corrono quasi 50 anni, non è affatto facile. Ci vuole molto amore. Sentimento non obbligatorio. E piuttosto raro, soprattutto ad altissima quota.

Secondo.

Molti imprenditori hanno decretato che la loro progenie non è adatta a succedergli. Talvolta è vero. Tal altra, no. Un gran numero di imprenditori italiani è dominato dalla sindrome di Crono. I figli se li cannibalizzano. Senza giungere ai casi umani, alla Caprotti, per intenderci, che è roba da DSM-IV, è innata una certa diffidenza che alla fine convince anche il virgulto di essere un povero coglione, mentre, in molte situazioni, si tratta solo di una persona cui era necessario dare fiducia (ed evitare di fargli fare il direttore generale tre giorni dopo la laurea, magari, che insomma, è come far guidare una Maserati a un neo-patentato).

Paradossalmente, uno assai bravo, nel trasferire il potere ai figli, è stato Silvio B. E’ ragionevole pensare che ci sia lui dietro alcune quinte, ma ha saputo delegare. E anche gestire, con largo anticipo il post (vale a dire la divisione dei pani e dei pesci, quando allungherà le zampette). Penserete mica che il divorzio da Veronica sia stato così sanguinoso per quattro corna e due minorenni? No, lì si son decise le sorti dei gioielli di famiglia, e un accomodamento quale che sia devono averlo trovato (a vedere se poi reggerà).

Però il non trasferire competenze e conoscenze ad un erede diretto, è una cazzata abominevole. Pescane uno, il meno inetto, e rendilo almeno in condizioni di confrontarsi coi manager. Altrimenti, meglio vendere, e restare col pecunio. Se non sai confrontarti coi manager che assumi (e se loro non ti temono) hai la maggioranza di nulla. E ti massacreranno.

Terzo.

Quotarsi in Borsa è un passaggio a volte inevitabile. Ma non obbligatorio. Ferrero, per esempio, non l’ha fatto. Ha mantenuto la proprietà indivisa delle azioni e si è dato un erede designato. Anzi due, poi uno è sciaguratamente perito un paio d’anni fa. A vedere se, il giorno in cui il fondatore non darà più il suo apporto, l’erede designato sarà in grado di farsi carico del fardello, ma qui si rientra nella fattispecie due. Quanto, il fondatore abbia saputo delegare.

E in ogni caso, il non essere quotati in Borsa consente dei margini di adattamento che, oggi, Luxottica come Mediaset non possono permettersi.

Gli Agnelli, soprattutto Gianni Agnelli, i più cosmopoliti di tutti, (al netto di altri giudizi che sarebbero impietosi, e che meriterebbero, da soli, un post) hanno gestito i passaggi di potere con ammirevole lungimiranza.

Partendo da una situazione tra le più svantaggiate, cioè una successione priva, all’atto pratico, di successori. Che tra scomparse precoci, ed eredi che, anche se non fossero scomparsi, tali non avrebbero potuto essere, si son trovati con un vuoto colmato con abilità.

Agnelli, cui non facevano difetto né gli ottimi collaboratori, né una certa pragmaticità, pensava ad una soluzione senz’altro più soft (Umberto Agnelli, nei fatti, avrebbe dovuto reggere l’azienda per un tempo ben più lungo preparando la strada al giovane Elkann,) poi le cose, si sa, non andarono così. Ma intanto, al giovane Elkann aveva predisposto una maggioranza azionaria che ha retto agli assalti. Un capolavoro di ingegneria ereditaria, considerato l’asse successorio.

Ecco, prima di perderci dietro ai Jobs Act, ai contratti, ai tfr in busta, varrebbe la pena riflettere, seriamente, sul futuro dei grandi gruppi (da cui dipendono tutti i satelliti, cioè l’indotto), perchè da quel che si vede, si percepisce e si ode, anche qui ci confrontiamo con un mondo allo sbando, che non è mai stato proattivo, che ha smesso diessere reattivo, e che vive di mezze soluzioni che, alla fine, scontentano tutti.


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