di
Maria Frasson
(puntate precedenti: I)
Hic incipit…
Hic incipit.
Esami di maturità.
E poi esami di concorso: tormento della nostra generazione, che i pochi superstiti rivivono ancora nei sogni di qualche notte angosciosa. Riforma Gentile: noi ne siamo stati colpiti in pieno, ed eravamo in prima linea, come i soldati al fronte. Tutto ci chiedevano: tutto lo scibile. C’era da impazzire.
E fu così che un giorno, sollevando la testa dai libri della biblioteca, io gli proposi di prendere insieme una boccata d’aria: eravamo come ubriachi per il troppo studiare, ed era un giorno così bello, sfolgorante di luce viva, nel pieno sole estivo. Lui si preparava per la maturità, io l’avevo già superata da tempo e studiavo per l’abilitazione e i concorsi.
Scoprimmo di studiare le stesse identiche cose, almeno per le materie letterarie; cioè tutto il programma di tre anni: di italiano, latino, greco, storia, filosofìa ed economia politica e storia dell’arte.
Da quel giorno, per prendere respiro, andammo regolarmente a fare due passi verso il nostro ponte di San Giorgio, che era poco lontano e sempre così bello, su quel nostro lago lungo il quale percorrevamo inavvertitamente il sentiero del nostro destino.
Poi gli proposi di studiare insieme a casa: era più facile. Studiavamo come matti, fino alle ore più tarde, con qualche doverosa pausa.
Quando ci si incontra fra giovani e ci si scambiano con serietà le proprie esperienze, può accadere che ci si senta portati, specialmente se l’incontro avviene fra l’uomo e la donna, che sono per natura complementari, a mettere a nudo la propria anima e a riflettere sull’interiorità dell’altro, che è tutta da scoprire. Ne nasce una profonda amicizia, che sfocia non di rado irresistibilmente nell’amore.
È assurda la pretesa di fissare quello che è il più grande dei sentimenti umani alla sua prima rivelazione: “Ti amo” e spesso, nella loro felice illusione, aggiungono: “e ti amerò sempre”. Illusione, ripeto. E così non credo all’amore a prima vista, al colpo di fulmine, come si usa dire, che può essere attrazione soltanto, o passione, o stravolgimento dei sensi, e dà luogo in seguito ad inevitabili delusioni.
La vita cambia, infatti, e con la vita cambia anche l’amore, o meglio, il nostro modo di amare, perché di etemo, immutabile c’è solo Dio.
Ma non è detto che non debba durare, pur nel suo evolversi naturale, questo sentimento che bussa alla porta del cuore nell’ardore e nel fervore della giovinezza.
Allora è come un’incantesimo, specialmente se si accompagna e quasi si immerge in un’emozione estetica condivisa nel sentirsi partecipi, e direi protagonisti, della forza motrice universale che vibra intorno a noi nel suo mistero divino e umano.
Per convincersene basta leggere Platone (nel Convito e nel Fedro) e Teilhard de Chardin, o tanti altri pensatori, i quali considerano l’amore un dono reciproco che aiuta ad elevarsi verso una più alta spiritualità, spalancando le porte della fede nell’immortalità dell’universo.
Ed è un fatto che il prendersi per mano, sapendo che il proprio cuore batte con l’altro cuore, affrontando l’avventura della vita è, secondo me, un’esperienza religiosa.
Io l’ho sentita così.
Continua la storia d’amore
Gli esami ebbero un esito molto felice per entrambi.
Io ebbi la sospirata abilitazione all’insegnamento: soltanto nella media tuttavia (bisogna pur dirlo) perché Mussolini aveva vietato alle donne l’insegnamento letterario nelle scuole superiori. Motivo: le donne non formavano dei soldati. I programmi erano comunque gli stessi per chi si presentava agli esami: io li avevo superati con un’ottimo punteggio: tante grazie; mi rilasciarono un lusinghiero certificato, e nulla più. Lui fece furori. Le passeggiatine fuori porta erano servite a schiarirgli le idee: altrimenti il troppo studio l’avrebbe istupidito. Perdette tutti i libri che si era portato (o li dimenticò) a Cremona, dove si andava a fare gli orali ed era inutile cercarli alla stazione: segno della grande emozione superata. Oggetto di spasso. Era stato giudicato il primo di tutta la Lombardia, con tutti 9.
Affollatissima l’Aula Magna del nostro Liceo e grandi applausi al discorso del Preside, quando lui – umile in tanta gloria – salì sul palco per ricevere il premio che a quei tempi parsimoniosi consisteva in un bello, bellissimo libro. E nulla più.
C’era vicino a me una mia ex-professoressa che mi magnificò l’eroe per averne sentito parlare come di un genio. Io l’ascoltai interessata, in silenzio, e facendo finta di non averlo mai conosciuto.
A Mantova era così: tenevano in gran conto chi riusciva negli studi (erano così pochi, allora): caratteristica dei mantovani di entusiasmarsene quasi come per Nuvolari e Guerra.
Tutto il mondo è paese, si usa dire, ma a Mantova si nota quella carità del natio loco che anche Dante ha messo in luce: VI canto del Purgatorio: “O mantovano, io son Sordello della tua terra…” Allo studente mantovano che si fosse iscritto all’Università col più alto punteggio conseguito alla maturità veniva conferito (senza distinzione di censo) il Premio Franchetti. Lui lo ebbe (l’avevo avuto anch’io a suo tempo) ed era una bella cifra in denaro, a cui l’Università per gli stessi titoli aggiungeva l’esonero dalle tasse, ma quest’ultimo solo per i “nulla-tenenti” che non ha niente a che fare coi gradi dell’esercito. Si studiava gratis, insomma, purché si sapesse mantenere una media alta. E non era facile.
Durante l’estate lui veniva spesso a trovarmi: sempre in bicicletta. Andavamo insieme alle Grazie, a quel caratteristico santuario, a me caro, situato sulla riva del lago, anzi sul primo distendersi del Mincio che si immerge nell’ampiezza del lago Superiore. Pregavamo per il nostro domani.
Incidenti di percorso
La mia vita era allora – da qualche anno – molto cambiata.
Ad un lutto gravissimo ed estremamente doloroso, si era accompagnata, quasi improvvisa, la perdita di ogni nostro mezzo di sostentamento.
Eravamo rimaste sole: io e mia madre, mia madre ed io, con molte lacrime segrete, perché vicendevolmente l’una non aggravasse il soffrire dell’altra. Ci fu molto coraggio – devo dirlo – da entrambe le parti, di fronte ad una prova veramente drammatica. Mentre stavo per finire una tesi di laurea molto impegnativa, dovevo dare parecchie lezioni private che mi furono procurate sia dal mio Preside del Liceo che dal Rettore di un collegio che mi furono – entrambi – oltre che di aiuto, anche di affettuoso incoraggiamento. Ma il superlavoro e soprattutto il dolore sempre cocente mi causarono, l’anno seguente, un esaurimento nervoso che potevo curare solo lavorando, e che a volte tuttora influisce sulla mia fragilità psico-fisica. Tuttavia, come sempre, la Divina Provvidenza riversò su tutto questo la pioggia d’oro dei suoi doni d’amore.
Non ultimo, ossia ultimo soltanto in ordine di tempo, fu l’incontro con Mario: il dono più grande.
Pregavo e meditavo molto sulla mia situazione ed ebbi – incidenti di percorso – dei ripensamenti.
Avevo paura.
L’ambiente in cui ero vissuta sino allora era poco rassicurante.
I giovani cercavano l’avventura: noi ragazze lo sapevamo ed alcune, incuranti, l’accettavano, salvo poi a pentirsene amaramente; altre, come me, preferivano salvarsene, incoraggiando tuttavia ogni vana speranza con l’incoscienza di una perfida civetteria. Senza neanche mai pentirsene, come me. Alla serietà ci avrebbero pensato gli anni.
Ma le prove dolorose insegnano a maturare: viste da lontano come oggi, straziano ancora nel ricordare, ma evidenziano anche un loro lato positivo.
In quel momento – ripeto – ero molto cambiata: avevo veramente paura di un legame sentimentale serio e responsabile.
Temevo – non per me (non me ne importava) ma per lui, di togliergli la libertà dovuta alla sua giovinezza, perché lui era più giovane di me, quantunque infinitamente più adulto e più saggio.
Primo incidente. Volevo troncare, e ci fu una vivace discussione tra noi, che fu inutile perché mi trovai a cozzare contro una volontà molto più forte della mia, e io, che ero abituata a vincere, dovevo constatare che il mio piedistallo non era più tanto solido.
Qualche tempo dopo il secondo incidente di percorso fu provocato sempre da me: più grave del primo, a causa dell’ aperto contrasto in cui lui si trovava con la sua famiglia. I genitori, che attraversavano gravi difficoltà finanziarie, avevano pattuito con lui, primogenito di cinque figli, che si sarebbe dedicato, subito dopo la laurea, con immediati guadagni professionali e con un eventuale matrimonio vantaggiosamente quattrinato, al restauro del loro dissestato bilancio. Io non ci vedevo chiaro, vedevo anzi davanti a noi un ostacolo insormontabile, ed ignorando il suo recente contrasto con la famiglia (destinato a durare), mi dichiarai perentoriamente decisa a ritornare sui miei passi, col conseguente ricupero della reciproca libertà. Così lui – povero amore mio! – si trovò a dover combattere su due fronti. E lo fece, com’era suo costume, con dignitosa energia. E con un suo piano strategico.
Parlò prima con mia madre, e riuscì a commuoverla; ci voleva poco. Non solo, ma seppe conquistarne, oltre la stima, anche l’affetto del suo cuore generoso, che durò incondizionato in lei (e anche in lui) fino alla morte.
A completamento della strategia, intervenne suo nonno, che lo amava molto e gli si dichiarò disposto a sanare – con le sue molto notevoli disponibilità finanziarie – la situazione famigliare. Il nonno inoltre volle conoscermi e mi invitò a pranzo: un pranzo che oserei dire solenne, con mia madre. E mi dimostrò un affetto così immediato e così commovente, che non potevo non esserne conquistata.
Era un uomo con la U maiuscola, una figura moralmente straordinaria, che si era costruito dal niente una fortuna, con sacrificio, serietà e onestà. Alla sua memoria sono tuttora grata e tuttora devota. Ora, superato ogni ostacolo, tutto mi apparve chiaro. Da parte mia, dunque, capitolazione generale.
“Tu sei un Dio misterioso. Tu sei un Dio nascosto” ma, comunque, c’era la Sua divina volontà tra noi due, intesa a congiungere le nostre mani per camminare insieme, definitivamente. La Sua pioggia d’oro era scesa su di me, inavvertita, ineluttabile. Ero disponibile ad accoglierla e nello stesso tempo decisa a non provocare mai più quella tristezza così profonda con cui lo sguardo di quei grandi occhi neri si posava su di me. Non l’avrei potuta sopportare mai più, perché lo amavo.
Capitolazione, dunque, totale, come ho detto.
(continua…)