di
Maria Frasson
(puntate precedenti: I, II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XIV, XV, XVI, XVII, XVIII, XIX, XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV, XXV, XXVI, XXVII, XXVIII, XXIX, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII)
I nipoti
Ciascuno di questi bambini ha vissuto nella sua infanzia, in gran parte, nella casa dei nonni, anzi, più che nella casa, in quel grande spazio verde che la circonda. Nessuno di loro, in una qualsiasi delle fasi dell’esistenza, potrà non ritrovare, anche solo per un attimo, il centro profondo di se stesso e della propria vita interiore, nel ricordo del suo tempo primo e dello schiudersi trasognato delle sue prime esperienze legate ad un luogo, a quel luogo, come ad un incantesimo. L’infanzia infatti racchiude in sé un mistero che oserei dire sacro. Il Vangelo lo dimostra, come lo dimostrano anche altre religioni. Non soltanto la mitologia pagana ha descritto Cupido “fanciul nudo con l’arco faretrato”, Amore, il più potente di tutti gli dei a cui tutto il mondo divino e umano è sottomesso, ma anche i più antichi popoli orientali adorano in un fanciullo il piccolo Krishna della religione indù. Ma senza risalire tanto indietro, tra i nostri santi, per così dire, più alla mano e più vicini a noi, non abbiamo forse Santa Teresina del Bambino Gesù, così cara e così candida in quella sua avvincente “Storia di un’anima”, anima pura come quella di una bambina? E il nostro S. Antonio di Padova, venerato in tutto il mondo, non è rappresentato con in braccio il Bambino Gesù?
Il Natale infatti è la festa cristiana più universalmente riconosciuta, e Gesù Bambino commuove anche gli atei, mentre alcuni evangelisti lo trascurano e altre nostre feste cristiane sono altrettanto ignorate, come il 25 marzo: ossia l’incarnazione, il vero primo momento in cui Gesù “habitavit in nobis”, quel primo momento in cui incominciò a vivere con noi nel seno di sua Madre. Gli Ebrei immaginavano gli angeli come adulti, noi li vediamo bambini e ci intenerisce ogni piccolo bambino nella sua fragile innocenza.
Così doveva avvenire anche per il Figlio dell’uomo, come usava dirsi Gesù, ed è proprio nell’incontro di Gesù coi fanciulli che aleggia il sacro mistero dell’infanzia. È frequente nei sinottici l’accenno ai bambini. Glieli portano perché imponga loro le mani e li benedice. Questo è bello, ma non è tutto: qui si tratta dei più piccoli. Ma poi si legge anche che i discepoli li sgridavano, e qui invece si accenna ai più grandicelli, e questo è bellissimo. Gesù rimprovera severamente i discepoli: “Lasciateli venire”. Imposizione categorica. Questo “venire” dei fanciulli, che probabilmente è abituale appena lo vedono, dimostra senz’altro che si sentono suoi amici, che sono i suoi amici migliori e che c’è fra loro un’intesa la quale non ha nemmeno bisogno, per esprimersi, di parole terrene, ma è di per sé un’intesa celeste. Noi possiamo soltanto immaginare che quel “venire” è piuttosto un correre verso di Lui e magari con un impeto gioiosamente sfrenato, dal momento che i discepoli se ne impazientiscono. Ma Lui li difende e subito si fanno buoni e non gli impediscono di parlare; buoni e zitti e composti e sopra tutto intimamente fieri di quella protezione così solenne. Sanno di essere amati. E gli stanno vicini, vicini il più possibile, mentre Lui cammina e prende per mano il più piccino, stringendo quella piccola, cara manina nella sua mano usa ad impartire la benedizione che discende dal Cielo. E dove Lui si siede, su di un poggio erboso, o nell’interno di una casa, sempre vicini a Lui devono stare, tutti in cerchio, perché Lui vuole così. C’è intorno, nel raggio dell’amore innocente, una soffusa luce di paradiso, un’atmosfera celeste. Guai a chi vuole allontanare da Lui quella candida purezza! E di più: Guai a chi la scandalizza! Terribili parole da cui traspare non solo la tenerezza che i bambini gli ispirano, ma anche l’affettuosa trepidazione per quella vulnerabilità così indifesa. Fossimo stati noi al posto loro, protetti da quello sguardo, illuminati da quel sorriso! Già, perché il Vangelo ci dice tante cose di Gesù, ma è solo in questa pagina (Matteo: 18 e 19 e altri) che Gesù sorride, in questo incontro con i fanciulli che noi vediamo il suo sorriso di tenerezza immerso nel sacro mistero dell’infanzia.
Fine della digressione.
Noi li vedevamo fiorire qui i nostri nipoti; sperimentare sul prato i primi incerti passi, seguire attoniti il volo di una farfalla, raccogliere un primo fiore della primavera nascente stringendolo tra le manine grassocce per mostrarne la meraviglia. E più tardi correre e gridare di gioia ad ogni traguardo conquistato dai loro giochi festosi, crescere insieme con le piante, con l’erba, col fruscio del vento, con le ore del sole ed eravamo felici di contemplare muti quella vita nella vita. Felici più tardi di accogliere con loro i loro amici, di averli spesso partecipi del nostro sederci a tavola.
Più felice di tutti era Mario (che io chiamavo il patriarca) come illuminato da una quieta serenità nel vedersi intorno la sua costituita famiglia. Gli anni migliori furono quelli in cui eravamo tutti uniti anche durante le vacanze in montagna o al mare. Ricordo che un anno, al mare, in Istria, io che rifuggo dallo stare immobile al sole, li trovavo al ritorno dalle mie passeggiate solitarie ad arrostirsi sugli scogli: lui in mezzo, gli dicevo che sembrava un dio marino attorniato dalla sua tribù come Proteo: gli mancava il tridente. Era un bellissimo quadro sullo sfondo dell’immenso mare che gli dava risalto di perlacee mobilità.
Poi, man mano che passavano gli anni, la famiglia si disperdeva, salvo a ritrovarsi unita in determinate occasioni felici. E così l’eterno fluire della vita ci rese spesso soli noi due che, quasi senza accorgercene, ci sentivamo sempre più vicini l’uno all’altra. Eppure eravamo così diversi, nel carattere, nei gusti, nel modo di pensare. Stavamo per invecchiare nella sempre più stringente necessità dello stare insieme. Questo rende più amaro il distacco, quando deve avvenire. Lui, entrando in casa, mi cercava, mi voleva vicina nei nostri due passi in giardino e altrettanto seduti davanti alla televisione. La vita trascorreva così, serenamente: la serenità è pure un grande dono, ma tuttavia per lungo tempo non può durare. Questo pensavo via via che si diradava nel tempo il ricordo degli anni passati e mentre gli guardavo quelle sue belle mani lunghe e sottili che l’arte del chirurgo aveva affinato. E mi risuonavano spesso nel cuore le parole di S. Agostino: “L’anima mia, Signore, non ha pace finché non riposi in te”. Io gli parlavo spesso dei miei studi più recenti e particolarmente della mia visione della vita a cui Teilhard de Chardin che consideravo mio maestro aveva cambiato direzione: in una realtà evolutiva verso un fine ultimo. Lui mi ascoltava in silenzio con interesse e una sera prese in mano un portacenere di ceramica che aveva dipinto per lui una suora e mi additò le parole: “Rien n’est meilleur que faire une ame moins triste” (Verlaine) e mi disse: “Questo potrebbe essere il mio motto. Il mio credo religioso è semplice, non si pone ulteriori problemi”. Avevo capito: lui cercava di scoprire, attraverso il volto infermo dell’uomo, il volto fermo di Dio. Questo era importante per lui. Amleto infatti dice all’amico Orazio: “Ci sono più cose tra il cielo e la terra di quante ne sogni la tua filosofia”.
(continua…)