Il Cappello di Carta: Sconfitti e Vincenti

Creato il 14 maggio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il maggio 14, 2012 | TEATRO | Autore: Laura Cavallaro

È un momento triste per la cultura questo, soprattutto per il teatro. Tempi mesti e difficili che ti riempiono di sconforto. Poi una sera ti rechi ad una rappresentazione ed incontri, lui, un piccoletto di nome Edoardo, cinque anni appena, che non vede l’ora che inizi lo spettacolo. E rimani senza parole, perché non si tratta di un musical o di una favola, ma di un testo corposo come “Il cappello di carta” di Gianni Clementi. Allora ti nasce la speranza che anche in tempi bui possa scorgersi uno spiraglio di luce. Chiusa la parabola ottimista, vediamo di analizzare meglio la mise en scène. Il Teatro delle Nevi porta sul palco del Teatro Grotta Smeralda qualcosa di completamente nuovo rispetto al recente passato. La prima produzione di Clementi, infatti, ripercorre alcuni momenti salienti della storia della nostra penisola, in particolare gli anni del secondo conflitto mondiale e del dopoguerra (si pensi ad opere come Grisù, Giuseppe e Maria, L’ebreo o La vecchia Singer). Ne Il capello di carta si raccontano gli anni laceranti della guerra, che loro malgrado, pur con le pene che si portano dietro, conservano un messaggio positivo.

Siamo a Roma nel 1943 ed i protagonisti della pièce sono i membri di una famiglia allargata composta dai coniugi Camilla (Angela Barbagallo) e Leone (Rodolfo Torrisi), dai loro due figli, Candido (Gaetano Cittadino) e Bianca (Chiara Valentino), dal nonno Carlo (Maurizio Panasiti) e dalla zia Anna (Liliana Biglio). Il cappello del titolo altro non è che il copricapo dei muratori. Ogni mattina, difatti, prima di iniziare una dura giornata di lavoro, Leone e Candido usano i fogli de “Il Messaggero” per dare vita a questo elmetto cartaceo. Il caos regna fuori: il bombardamento di San Lorenzo e la deportazione del 16 ottobre di più di mille ebrei dal ghetto romano; il caos regna dentro: Bianca si concede all’amore peccaminoso, perché fuori dal matrimonio, con Remo (Guido Franco), Candido che pensa solo a dormire, due genitori frustrati dalle problematiche quotidiane, l’indecisione di Anna che non sa se risposarsi dopo anni di vedovanza, un nonno irriverente dalla mentalità bigotta.

Sono tre atti dal ritmo denso, energico. La scenografia è minimale, una cucina povera con un lettino. Si svolge tutta lì l’azione, ma i personaggi hanno talmente tanto da dire e fare che catturano appieno lo spettatore. Dimessi i costumi, che ovviamente devono dare a chi guarda l’idea delle ristrettezze affrontate, anche a causa della guerra, dai protagonisti dell’opera. Interessante l’utilizzo del buio e nel primo atto delle luci soffuse delle candele accese durante i bombardamenti. Un esempio? La promessa di Anna alla Madonna quando il padre Carlo scompare di casa. Una tecnica molto usata nelle rappresentazioni dei testi di Clementi: lei inginocchiata fa il suo monologo, il suo volto illuminato da un occhio di bue e il resto della scena immersa nell’oscurità.

Il teatro è magia, ma è anche realismo. Gli intermezzi musicali sono realizzati con canzoni d’epoca e fasciste. Apprezzabile la new entry, Gaetano Cittadino, che non manca certo del physique du rôle per interpretare un manovale con ben altre ambizioni. Intenso, invece, Maurizio Panasiti nei panni del nonno. Panasiti è un attore amatoriale straordinariamente camaleontico e la sua performance è stata realmente struggente. La difficoltà nell’approccio con un personaggio così anagraficamente distante dal suo interprete, richiede un lavoro complesso, supportato non solo dal trucco, che può essere meglio apprezzato al cinema, ma anche da un timbro vocale e da una postura “particolare” costante durante tutta la recita.

La scena più toccante si ha quando quest’uomo ormai in là con gli anni, non riuscendo a ritrovare la strada di casa, si abbandona alla disperazione e decide di restare nel cimitero dov’era andato a trovare la defunta moglie. Poi, l’attacco dei bombardieri americani che sventrano la città. La sua paura è quella di perdere la donna amata: raccoglierà le sue ossa e le deporrà in un sacco che porterà con sé. La povertà e la fame sono condizioni che non vietano a questa famiglia di rimanere fedele a valori come l’onestà e la correttezza. Quando Camilla e la figlia Bianca trovano un bambino nascosto nel ghetto ebreo insieme ad una cassettina di gioielli, nonostante l’indigenza, decidono di non toccare quell’oro per comprare da mangiare. «L’oru è do piciriddu e non si tocca»: una frase difficile da dire quando i crampi causati dal non aver toccato cibo non ti lasciano neanche riposare.

Durante la rappresentazione un dubbio mi ha attanagliato. Clementi si fa portavoce del dialetto romano e anche l’opera è ambientata a Roma, ma allora perché la scelta di far parlare la famiglia in siciliano? L’arcano mi è stato svelato dal regista ed interprete Rodolfo Torrisi: è stato lo stesso autore a consigliargli di usare il dialetto siculo. La scelta in questo caso, forse per avvicinare di più il testo all’auditorio, è stata quella di mettere in scena non più una famiglia di romani ma di immigrati. Il linguaggio usato rimanda in non pochi termini a Martoglio e Camilleri, Torrisi non sceglie dunque una parlata specifica. Naturalmente, di fronte a questa spiegazione alziamo le mani in segno di resa, anche perché la traduzione ha sicuramente rispettato lo spirito e la logica dell’originale. Molto toccante il momento musicale alla fine: una ninna nanna cantata da Anna al piccolo bimbo ebreo. “La siminzina” dell’artista folk Rosa Balistreri. Un ulteriore e sentito omaggio alla nostra meravigliosa Sicilia.



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