Chi mi conosce personalmente sa che da parecchi anni faccio volontariato nell’ambito del soccorso sanitario come autista o capo equipaggio di ambulanze. Ieri ero di turno e intervenendo dopo una chiamata del 112 mi sono trovato di fronte a un uomo di mezza età che si era impiccato. Ogni tentativo di rianimazione sarebbe stato inutile; il corpo penzolava inerte, il volto era cinereo. L’esperienza mi ha fatto capire che il suicidio risaliva ad alcune ore prima e che la morte non era avvenuta per asfissia ma per la rottura del collo. Benché abbia visto ogni tipo di evento medico e traumatico, per me il suicidio è ancora un fatto inspiegabile ed emozionale. So restare calmo e distaccato quando intervengo sulla scena di un incidente stradale cruento o di un arresto cardiaco, ma il suicidio, soprattutto per impiccagione, mi turba. Ieri, raccogliendo i lamenti della madre del suicida, una povera donna disperata, mi ha ulteriormente rattristato e frustrato sapere che la causa primaria del gesto del figlio era di natura economico-finanziaria. L’uomo aveva infatti ricevuto una cartella esattoriale da fare tremare i polsi. L’Agenzia delle Entrate esigeva una cifra che il suicida e sua madre non erano in grado di pagare. Non so quale piega avesse preso la faccenda ma forse il figlio temeva che Equitalia gli avrebbe portato via la casa. Quante situazioni simili e precedenti ci sono in Italia? Quante persone – imprenditori, artigiani, pensionati ecc. – si sono suicidati a causa delle ristrettezze economiche, dei debiti, della frustrazione che fa vedere buia anche una giornata di sole? Quanti morti pesano sulla coscienza del Leviatano statale che stritola il contribuente, infierisce sul debole, calpesta la sua dignità e lo costringe a una resa incondizionata e inumana, mettendogli un cappio al collo? Certo, la colpa di togliersi la vita è principalmente di chi ha deciso di farlo e non sarebbe corretto attribuirla agli altri. Eppure, pensare che un essere umano possa ricorrere al suicidio per sfuggire ai tentacoli di una piovra – che tale è diventato l’iniquo sistema tributario del nostro Paese – suscita una pena profonda e rabbia allo stesso tempo. Non è sempre stato così. Quando ero giovane si poteva dialogare con gli apparati statali, ci si poteva ragionare. Ma poi, di pari passo con l’aumento dello spreco e del debito pubblico, lo Stato si è ingrugnito e abbruttito, perdendo di vista la realtà, il bene della comunità. Lo Stato ha progressivamente aumentato le pastoie burocratiche e la pressione fiscale, riesumando diritti e tributi feudali. L’attuale sistema tributario ci riporta al feudalesimo. Paghiamo troppi balzelli, alcuni dei quali assurdi, e in cambio riceviamo un disservizio. Non c’è molta differenza tra alcune voci fiscali del Medio Evo – decima, ius beverandi, adiutorio, ripatico, plateatico, ecc – e le imposte attuali come il canone Rai, le accise, il bollo auto, le licenze, le esazioni coatte dei gruppi corporativi e parassitari che lo Stato tutela, le sanzioni amministrative, ecc. Si combattono battaglie repressive contro l’evasione fiscale che si trasformano in guerriglia e intanto si mantengono in vita i privilegi delle caste, i soprusi di un sistema autoreferenziale. Se lo Stato, con metodi polizieschi, usando i suoi scherani e i suoi Bravi, prende di mira un contribuente presumendo che sia in difetto, costui è spacciato! Lo sceriffo di Nottingham romano ha inventato il redditometro per decidere se paghi il giusto e poco importa se questo giusto è virtuale, astratto. Il Fisco viola la privacy e la libertà, controllando i nostri conti correnti e le nostre carte di credito. Ti mette alla gogna perché hai prelevato dei contanti. Basta il dubbio o il sospetto perché un cittadino sia bollato come evasore e convocato nel castello di Kafka. Ben venga che i veri, grandi evasori paghino il dovuto ma in realtà a pagare sono sempre e soltanto i fessi e i tapini. La sperequazione è cresciuta in modo proporzionale ai prelievi fiscali. Gli inquisitori di Stato scaricano su di noi l’onere della prova d’innocenza mentre la logica vorrebbe che fossero loro a dimostrare la presunta colpevolezza. Ci tartassano anche se siamo in regola e se non sappiamo come difenderci ci umiliano. Bisogna avere una certa cultura e conoscenza del mondo e possibilmente essere amici di un bravo commercialista o di un avvocato per non subire torti, vessazioni, minacce. Se sei un povero Cristo, il sistema non ha scrupoli, prima ti schernisce e poi ti crocefigge. Perché lo Stato è forte coi deboli e remissivo con i forti? Perché si comporta come Maramaldo? Non tutti sanno chi è costui, ma ai miei tempi non c’era un bambino delle Elementari che non si emozionasse al racconto di come lo spavaldo e prepotente capitano di ventura Fabrizio Maramaldo avesse ucciso crudelmente il condottiero fiorentino Francesco Ferrucci nella battaglia di Gavinana del 1530, dopo che costui, ferito e indifeso, lo aveva apostrofato con le parole: “Vile, tu uccidi un uomo morto!”. Da allora, “maramaldeggiare” indica l’atteggiamento impietoso e malvagio di chi si accanisce sui deboli e su chi è in difficoltà o è stato sconfitto della vita. Come tutti i bambini degli anni Sessanta, odiai Maramaldo. Non potevo immaginare che cosa sarebbe successo molti anni dopo.
Cosa è successo? A parte il fatto che le ultime generazioni non sanno chi è Maramaldo, e poco importa visto che l’aneddoto storico potrebbe anche non essere vero, lo Stato è diventato il Maramaldo per antonomasia. Quando vede Ferrucci a terra, non agisce con clemenza, non ne rispetta la sofferenza e tanto più lo aiuta. No, lo Stato gli toglie anche l’ultima speranza, gli dà il colpo finale. Ma la cosa più vergognosa, a mio modo di vedere, è come sia cambiata la specola. Il vile Maramaldo dei tempi in cui l’Italia era il Bel Paese, si è trasformato, nell’immaginario popolare, in un "figo", un personaggio vincente, da imitare. Oggi, agire come Maramaldo non è più una colpa ma un motivo di vanto. L’adagio “vivi e lascia vivere” è stato scalzato da un motto che fotografa la nostra società: “Mors tua vita mea”. Ne consegue, che non bisogna avere pietà per i deboli, anzi bisogna approfittare della debolezza altrui. Lo Stato per primo applica la regola, forte del tacito consenso di decine, forse centinaia di migliaia di piccoli, meschini maramaldi che sono al suo servizio o godono della sua protezione. Mi riferisco ai prepotenti, ai furbi, ai trafficanti, alle banche, agli speculatori, ai politici, agli amministratori pubblici, alle tante categorie umane che calpestano la dignità altrui. Ci vorrebbe un esame di coscienza. Ma lo Stato ha una coscienza? E hanno una coscienza coloro che hanno venduto l’anima in cambio del successo, del potere, del denaro? Ne dubito.Ieri, mentre guardavo la misera maschera di un uomo che non ho potuto soccorrere, mi sono venute in mente le parole iniziali della Ballade des pendus di François Villon. “Fratelli umani che dopo noi vivete, non abbiate con noi i cuori induriti, perché se avete pietà di noi, poveri, Dio avrà più presto pietà di voi». Voglio sperare che Dio avrà pietà di noi, soprattutto di Maramaldo e delle sue vittime impotenti.