Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortese

Creato il 13 novembre 2013 da Spaceoddity
Siamo all'alba del Romanticismo. In quel mondo ereditato dall'età delle rivoluzioni, con l'ombra napoleonica che aleggia sull'Europa e sul mondo, e il regno borbonico da difendere, il principe Ingmar Neville, il mercante Alphonse Nodier e Albert Dupré, l'artista, si recano da un famoso guantaio di Napoli, Monsieur Civile, per concludere qualche remoto affare, o perlomeno per una curiosità insoddisfatta. Lì conoscono la famiglia dell'uomo, ovvero la figlia maggiore Elmina, 16 anni, e la figlia minore Teresa, 11, nonché la cincischiante serva Ferrantina. La moglie dell'uomo, una tedesca, vive in disparte per qualche ancor più insondabile disaccordo o stonatura. Inizia così l'avventura melodrammatica e lirica di un gruppo di uomini e di donne sullo sfondo di una Napoli sognata, una Napoli adagiata su antiche e splendide carte geografiche, una Napoli d'interni, dove il sole giunge raramente e solo carico di misteri e di sonnolenza o di sogni.
Il cardillo addolorato (1993), uno tra gli ultimi titoli, di Anna Maria Ortese è un romanzo assolutamente straordinario: procede con un sovrano gusto della narrazione lineare, salvo poi sfrangiarsi in un gioco barocco di sentimenti e di idee, quasi a echeggiare quel solco tra Illuminismo e Romanticismo, tra le idee e lo slancio passionale delle persone. A guidare la storia è l'invisibile cardillo del titolo, presenza metafisica evocata più che allusa, quasi una filastrocca, una fiaba di bimbi raccontata per spaventare gli estranei, per avocare una realtà impalpabile, priva di misura.
Il Cardillo, nientemeno: quell'uccello che non era un uccello, ma una sorta di destino, e al quale sua madre e anche Teresa e Ferrantina tornavano spesso, nei loro discorsi, come all'origine di tutti i mali della famiglia, al padrone malinconico delle loro vite.

Il Cardillo, dunque, con la maiuscola iniziale, non è un uccello, è una necessità, un desiderio eccentrico che scardina il presente e lo vanifica, è una creatura che distrugge chi lo ama... Perché è la nostra memoria, signore... il desiderio dei giorni belli... i giorni impossibili, che tutti abbiamo incontrato... almeno una volta, nella vita... Ma il Cardillo è anche soggetto, gorgo di speranze, e - nel suo essere soggetto - non è più soggetto e anzi sfonda la parete della letteratura e ci coinvolge tutti, lettori e personaggi, disavvezzi al suono degli astri come nelle antiche dottrine:
il Cardillo, che di tutti aveva pena e disprezzo, come i celesti messaggeri ne hanno di questo mondo volatile e implume, fece udire la sua vertiginosa e lieta canzone, davanti alla quale vorremmo tapparci le orecchie.
Saga di suggestioni verbali clandestine e molteplici e di impreviste, epifaniche assonanze, Il cardillo addolorato è un libro di sorprendente melodiosità e di incanto magistrale. Scritto con una scioltezza stregonesca e con un'eleganza d'altri tempi, questo tardo romanzo di Anna Maria Ortese, ancora tutto pregno di realismo magico (come poche altre penne del Novecento dopo le opere di Massimo Bontempelli), è incantevole. Sobrietà e mestiere sono le due doti precipue. Ma ne Il Cardillo addolorato c'è anche lo slancio fantastico, la grazia dell'esuberanza gratuita. della narrazione tout-court, per non parlare dell'assoluta teatralità napoletana, città dalla quale l'autrice era lontana da molti anni.
Non è un caso, credo, che proprio mentre usciva Il cardillo addolorato, Anna Maria Ortese stava per ripubblicare, a quarant'anni dalla prima edizione, Il mare non bagna Napoli. Nella premessa a quella ristampa, la scrittrice parla di spaesamento, di uno sguardo sul paesaggio e sulla realtà che non riesce a condividere con quelli che lei - romana di nascita - considerava un po' i suoi concittadini offesi. La Ortese, inoltre, sottolineava anche la differenza di emozioni sul panorama da lei offerto di Napoli e della Campania in generale, la mancanza di presa su ciò che chiamiamo "reale". È per questo, tra l'altro, che nella fase forse più magica della sua carriera, Anna Maria Ortese si rivolge al lettore, al Lettore silenzioso nascosto nel cuore dei rumorosi tempi moderni, chiedendone in continuazione la complicità. L'autrice chiama in causa un Lettore paziente, privo di Senso comune (il micidiale Sesto Senso!) e fornito invece di una sua antenna privata per raccogliere il "silenzio" glaciale dell'Universo.
Eppure, vale la pena ribadirlo, la scrittura della Ortese non è affatto iniziatica, privata o - ancor meno - ammiccante: la sua penna è anzi piana, melodiosa, struggente come il canto di un uccello; è a modo suo, popolare, di singolare forza empatica. È una scrittura lenta, o addirittura paciosa, che si prende il suo tempo e lo restituisce a noi in termini di puro piacere narrativo e di commosso inchino a un mondo sepolto dalle voci del tempo e dal silenzio di ciò che non si dice e - si teme - non si dirà mai più.

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