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Il cardinale Federigo Borromeo: non tutti sanno quanto fosse cattivo

Creato il 26 dicembre 2013 da Lundici @lundici_it
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Il “Cardinale”, l’Eccellentissimo Federigo Borromeo (1564-1631), cui Alessandro Manzoni affidò gran parte delle finalità escatologiche dei personaggi del suo capolavoro, era in realtà un potente che relegò in una cella, con false accuse e per quattro lunghissimi anni, Giuseppe Ripamonti (1573-1643), l’autore di quel libro, “De peste Mediolani quae fuit anno 1630″, dal quale Manzoni trasse lo sfondo e la morale finale de “I promessi sposi”.

L’abbraccio tra il cardinale Federico Borromeo e l’Innominato in un dipinto di  Giulio Cesare Arrivabene

L’abbraccio tra il cardinale Federico Borromeo e l’Innominato in un dipinto di
Giulio Cesare Arrivabene

Il motivo per cui il potente cardinale compì il suo misfatto era, per giunta, infimo. Ripamonti, autore di importanti opere storiche, era anche il suo fedele scriba in una lingua, il latino, che Borromeo stentava a conoscere con sufficiente maestria. La storia di questa incredibile e quasi sconosciuta vicenda è ricostruita da Edgardo Franzosini (Sotto il nome del cardinale, Adelphi, 2013), il quale, con una prosa di mirabile limpidezza, mette a fuoco non solo il carattere piuttosto arcigno di Ripamonti ma anche la vanitosità del cardinale che, pur di preservare la sua fama usurpata di latinista, non si peritò di incarcerare senza alcun motivo il suo collaboratore, accusandolo perfino di un reato (per quei tempi) infamante come la sodomia.

Dopo quattro anni trascorsi in una cella piccolissima, fiaccato nel corpo ma poco nell’anima e con la prospettiva di doverci rimanere ancora per tre a seguito di un’altra falsa condanna comminatagli dal cardinale, era intervenuto Alessandro Ludovisi, salito al soglio di Pietro nel 1621 col nome di Gregorio XV, il quale aveva raccomandato al Borromeo di porre fine al processo che si dilungava oltre ogni limite di tempo. Fu così che Ripamonti, dopo aver più volte rifiutato di farlo, ammise le sue “colpe”, ricevendone in cambio la “benigna” grazia del Borromeo.

Ma come si venne a scoprire il «lato oscuro» del potente cardinale? Fu per merito di Carlo Morbio (1811-1881), storico erudito ed appassionato numismatico, grande collezionista di archivi e di epistolari (figura simile all’anglista Mario Praz, enciclopedico letterato del secolo scorso, collezionista di oggetti e opere “Biedermeier”), il quale, fra i tanti celebri epistolari da lui raccolti (con lettere autografe di Ludovico Ariosto, di Mantegna, di Lorenzo il Magnifico), conservava due scritti di Giuseppe Ripamonti, che lo storico seicentista aveva compilato durante la sua prigionia. Ne dava conto Ignazio Cantù (1810-1877, fratello del più noto Cesare) nel suo “Vicende della Brianza e de’ paesi circonvicini” (1835-36), asserendo che quelle missive erano state trovate in una camera d’albergo (ma, in realtà, si trattava di una cella dove Ripamonti era detenuto) e che in esse «si diceva poco bene del cardinale Federigo». La formula eufemistica utilizzata da Cantù nascondeva una vera e propria denuncia delle malefatte compiute dal cardinale ai suoi danni.

Lo storico milanese Giuseppe Ripamonti

Lo storico milanese Giuseppe Ripamonti

In realtà, Cantù censurò qualsiasi contenuto di quelle due lettere, convinto che fossero soltanto calunniose nei confronti del più celebre lombardo che mai fosse esistito. Fu dunque grazie ad un altro scrittore di cose storiche, Tullio Dandolo (1801-1870), che le accuse di Ripamonti al suo persecutore poterono emergere dal clima omertoso che circondava il santo prelato. Dandolo le poté leggere e ne riferì nel suo “Il secolo decimo settimo” (1864), parlando senza mezzi termini di «scritti denunciatori».

Ma la domanda cruciale di tutta questa vicenda non può che essere un’altra: Alessandro Manzoni conobbe quelle denunce? Qui l’indagine di Franzosini impone parecchi dubbi. Il fatto è che Carlo Morbio – il proprietario dei due scritti ripamontiani – contattò l’autore de “I promessi sposi” mentre era intento all’ultima e definitiva revisione del suo romanzo, offrendogli la consultazione del suo prezioso archivio.

Manzoni apparve recalcitrante ed incerto – ma l’indecisione era nel suo carattere e nel suo periclitante equilibrio nervoso – prima di accettare. Trascorse così numerose giornate nell’archivio di Morbio, cercando riscontri storici alla sua narrazione (come noto, Manzoni era il più convinto teorico del romanzo storico, cioè di un’opera che non fosse soltanto invenzione), fino al giorno in cui, con una lettera esplicativa, comunicò di non poter più proseguire nella sua ricerca, che rischiava di allungare enormemente i tempi della sua revisione letteraria. Fu una giustificazione posticcia o reale? Manzoni aveva letto i due scritti di Ripamonti e aveva preferito chiudere entrambi gli occhi? Franzosini non ci offre una risposta, tantomeno Morbio, anche se rimane un fatto curioso. Egli annunciò ripetutamente di voler scrivere un commento al romanzo manzoniano, nel quale avrebbe raccontato la vera storia della prigionia di Ripamonti, «documenti alla mano», che però non scrisse mai.

Ma anche Tullio Dandolo, un aristocratico di fervente fede cattolica, tergiversò alcuni anni prima di riferire e pubblicare per esteso il contenuto di quei due scritti. Lo fece nel 1868, in un lungo saggio apparso sulla «Rivista Contemporanea Nazionale Italiana», dove, con molte precisazioni e un sofferto desiderio di non recare danno alla memoria del cardinale, egli offriva ai lettori le due parti dello scritto ripamontiano (la prima in italiano; la seconda in latino). Il ritratto che lo storico fa di Borromeo è spietato: «L’origine dei miei mali non è veramente quella che appare; ma è perché, essendosi il Cardinale Borromeo fieramente invaghito della fama di scrittore latino, et havendo in ciò adoperata l’opera mia per lo spazio di dieci anni, vuole che io sia morto prima di lui; et debbo morire se Dio non fa qualche miracolo».
L’autore di uno dei più importanti saggi contro l’intolleranza religiosa, cioè Manzoni con la sua “Storia della colonna infame”, avrebbe tratto ulteriore nutrimento dalla denuncia di Ripamonti e dal suo infame processo, simile in tutto a quello contro gli «untori». E qualche dubbio sulla reale santità del suo cardinale.


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