Il Carnevale in Sardegna: SU CARRASECARE

Creato il 02 marzo 2011 da Alessioscalas
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“Balla chi commo benit carrasecare
A nos iscuttinare sa vida
Tando tue podes fintzas irmenticare
Tottu s’affannu mannu ‘e sa chida”


Così riecheggia la splendida canzone dei Tazenda. In tempo di carnevale si dimenticano tutte le preoccupazioni quotidiane, sostituite dal divertimento e dalla compagnia. Un periodo di sconvolgimento della routine, di sospensione delle responsabilità che questa società dell’incertezza impone e piega ai suoi ritmi.
Carrasecare. Carne da tagliare. Questo il significato della parola sarda usata per designare la festa. Carne umana e non carne animale, perché il sostantivo che si usa per la carne delle bestie è diverso: “pezza”.

Le ipotesi sull’origine di questa festa sono molteplici: retaggio di ancestrali riti, ricordo di dominazioni passate, archetipiche riproduzioni del binomio uomo-animale….. Tutte congetture valide e affascinanti, in parte confermate, in parte dubbie, dal momento che quando questa festa è nata- ahimè- nessuno dei nostri era presente!
Secondo alcuni autori la sua origine andrebbe ricercata in lontani culti dionisiaci in cui la vittima veniva immolata per riportare fertilità e abbondanza alla terra e ai suoi abitanti. La morte e il sacrificio diventano presupposti di rinascita e di salvezza dal precedente periodo invernale.
Poche sono le informazioni certe relative al Carrasecare sardo: è un periodo che si distingue nettamente dagli analoghi eventi in altre parti dell’Isola, quali ad esempio il carnevale di Tempio e quello cagliaritano, in cui la festa è incentrata sullo svago e sulla trasgressione. Si differenzia notevolmente anche dalle numerose gare a cavallo, pariglie o corse “a sa pudda” che si svolgono nell’Isola, dalla famosissima Sartiglia oristanese a “Sa carrera ‘e nanti” di Santu Lussurgiu. Il Carrasecare delle zone dell’interno assume toni lugubri, appesantiti dai suoni e dai movimenti delle sue maschere, a tratti pare quasi un Carnevale luttuoso, sofferente.

Il 17 gennaio segna la data ufficiale di inizio: si accendono i fuochi di Sant’Antonio, il santo, sempre accompagnato dal suo fedele porcellino, che rubò il fuoco al Diavolo per portarlo sulla terra. A differenza dell’eroe classico Prometeo, punito dagli Dei per il medesimo furto, Sant’Antonio fu santificato e ancora oggi è una figura affezionata della religiosità popolare locale. La data del 17 gennaio rappresenta l’incipit simbolico della festa: il fuoco ritorna tra gli uomini, le giornate riprendono ad allungarsi, l’inverno e i suoi sacrifici stanno finendo, la terra ritornerà presto a germogliare. Così come il Santo riporta il fuoco al mondo mortale, con la loro prima uscita le maschere risvegliano la vita nel villaggio. Quanti carnevali si festeggiano in Sardegna?

Quanti sono i suoi paesi e i suoi abitanti, si direbbe!
Se pensiamo che ogni paese può vantare una tradizione a sé nei festeggiamenti e ogni persona ha la libertà simbolica di scegliere il proprio travestimento, ci troveremo davanti a una miriade di eventi anche molto diversi tra loro. Per questo motivo risulta difficile articolare un discorso univoco che pretenda di interpretare il Carrasecare riconducendolo a linee esplicative generali e valide per tutte le sue forme. Non si deve inoltre dimenticare la portata economica del fenomeno, che nonostante i primi investimenti pubblici in corso, non è ancora emersa in tutta la sua ricchezza: si tratta di una festa in grado di attirare flussi turistici, eventuale fonte di benessere per il sistema turistico sardo diviso tra l’egemonia balneare e l’indifferenza per l’interno. L’altra faccia della medaglia concerne il pericolo di folklorizzazione di una festa antica, che corre il rischio di essere sapientemente adattata alle preferenze dei turisti e al forte bisogno di “esotismo” e di “tradizione autentica” che ancora aleggia nei confronti del patrimonio culturale dell’interno.

Se vuoi un Carnevale che non c'è ne un altro su tutta la terra vattene a Mamoiada che lo inaugura il giorno di Sant'Antonio: vedrai l'armento con maschere di legno, l'armento muto e prigioniero, i vecchi vinti, i giovani vincitori: un Carnevale triste, un Carnevale delle ceneri, storia nostra d'ogni giorno, gioia condita con un po’ di fiele e aceto, miele amaro
Come anticipato dalle parole di Salvatore Cambosu, il Carnevale di Mamoiada è sicuramente il più conosciuto. “Mamuthones” e  “Issohadores” sono i protagonisti indiscussi. I Mamuthones sono dodici:  maschere mute, vestite di pelli di animale, con una dote di campanacci da bue sulla schiena e sonagli più piccoli al collo, una visiera per coprire il viso (perché è indispensabile che la loro identità rimanga celata), un fazzoletto femminile sopra il berretto e la mastruca al contrario. La loro danza ricorda più un lento claudicare: un passo a destra e uno a sinistra, un altro a destra un altro a sinistra, una serie ancora…fino ad eseguire tre rapidi saltelli su se stessi che agitano i campanacci, creando una monotonia ipnotica capace di incantare la mente degli spettatori. Gli Issohadores sono otto, dispongono di una “soha”, ovvero di una fune di giunco, indossano il corpetto rosso al rovescio (forse in segno di lutto..), si muovono con dimestichezza tra la folla e ogni tanto cercano di catturare qualcuno con il laccio, creando scompiglio, e rompendo la staticità tra figuranti e spettatori tipica della rappresentazione teatrale in sé.

“Boes” e “Merdules” caratterizzano l’altresì conosciuto carnevale di Ottana. Entrambi i personaggi vestono di pelli non conciate, i Boes indossano visiere con fattezze animalesche cornute, su cui sono incisi simboli di buon auspicio (come la stella sulla fronte), le maschere dei Merdules, seppur antropomorfe, tracciano ghigni facciali non umani. I nervi si tendono in sorrisi irreali, i denti sono ingigantiti a dismisura, le parti del viso (mento, naso, occhi..) allungate in proporzioni impossibili. Interessante appare la figura della “Filonzana”, una maschera femminile (indossata da un uomo), che sfila per il corteo minacciando di tagliare il filo legato a una conocchia. Una sorta di Moira tutta sarda che delle tre personifica Atropo, la terribile divinità in grado di spezzare il “filo della vita” dei mortali.
A Gavoi, durante il giovedì grasso,“Jovia Lardajola”, un corteo improvvisato di personaggi vestiti di velluto nero, “sos tumbarinos”, agitano tamburi, organetti, triangoli, al fine di creare un incredibile frastuono che anima le vie del paese. Si pensa che tale frastuono serva a scacciare via il male e la negatività, aprendo una nuova fase della vita della comunità, sancita dal ciclo stagionale.

Ben rende la descrizione di Salvatore Cambosu sui “Thurpos” di Orotelli: “Partiti a cavallo alla prima alba, imbacuccati nei loro cappotti di orbace nero, con i cappucci puntuti rialzati sembravano gente di inferno”. Letteralmente i “ciechi”, sos Thurpos vestono lunghi abiti di orbace con il cappuccio a punta calato sul viso e una corona di campanacci sul petto. Sos “Thurpos Boes” sono tenuti a bada da su “Voinarzu”, che cerca di imporre loro la sua autorità, in una relazione che riecheggia il rapporto ancestrale tra uomo dominante e animale dominato o l’asimmetria tra padroni e servi. Ogni tanto i Thurpos catturano gli spettatori, costretti a correre o saltare con loro, a cui poi viene offerto da bere (il martedì grasso) o preteso (il giovedì grasso).
La misteriosa figura de “s’Urzu”, per cui si cercano traduzioni possibili con “orco” (che rimanda alla divinità dell’Ade, Plutone) o addirittura “orso” (sebbene questo animale non sia mai stato presente nella fauna sarda) caratterizza il carnevale di Samugheo, di Fonni e di Ula Tirso.
A Samugheo, s’Urtzu indossa una testa di caprone con lunghe corna, una intera pelle di caprone nero e un fazzoletto nero da donna per coprire il capo. Viene soggiogato da “Su Omadore” e ucciso simbolicamente dai “Mamutzones”, che indossano un particolare copricapo di sughero detto “casiddu” e una veste di velluto nero su cui ricade una pelle di capra, abbellita da campanacci sia davanti che dietro. Essi si muovono in corteo saltellando e mimando combattimenti e danze
Anche s’Urzu di Fonni cerca di sfuggire ai suoi due domatori, i “Buttudos” con arrampicate da brivido e corse spericolate.

La maschera di s’Urtzu di Ula Tirso è legata e sorvegliata dai “Domatores” e dai “Bardianos”. Viene ripetutamente colpita con bastoni da cui si protegge con un pezzo di sughero nella schiena, “sa zippia”. Sotto le pelli porta una vescica da cui fa sgorgare vino all’occorrenza per simulare il sangue. Per tutto il periodo di carnevale s’Urtzu viene portato in giro per le case per la questua ma mai fatto entrare perché si ritiene che porti con sé la scomunica. Egli ricopre il ruolo di “capro espiatorio”, in grado di farsi carico di tutti i mali della comunità, compresa la siccità. Oltre a Urtzu, Domatores e Bardianos, è presente “Maskinganna”, il diavolo, che spaventa gli uomini sotto le sembianze di capro o pecora. Una curiosa credenza ritiene questo demonio responsabile delle gravidanze indesiderate delle donne del paese.

Il carnevale di Lula inscena un complesso rituale di morte e resurrezione che ha come protagonista indiscusso “su Battileddu”, anch’egli vittima destinata al sacrificio per propiziare il ritorno della fertilità dei campi attraverso il sangue. Un corteo funebre struggente è quello che segue questa maschera, composto da altri “Battileddos” che piangono, urlano, fanno baciare piccole bambole di pezza agli spettatori. Bambocci vengono pianti e ostentati anche nel Carnevale di Bosa, dove i figuranti chiedono un “sorso di latte” per i piccoli Giolzi abbandonati dalla madre che ha preferito i festeggiamenti carnevaleschi alla responsabilità materna. Anche le maschere di Bosa si stringono in un corteo di lutto, un “attittidu” collettivo.

Oltre alle maschere, meritano un approfondimento i numerosi fantocci che vengono bruciati a fine festeggiamenti: Juvanne Marti Sero a Mamoiada, Zizzarrone a Gavoi, Don Conte a Ovodda, Su Ziomo a Lodine, Giolzi a Bosa. Simboli della rigenerazione che passa attraverso la morte, seguendo un ciclo naturale che si ripete fino alla fine dei tempi.
Altre maschere popolano i festeggiamenti dei paesi dell’interno: i “Bundos” di Orani, con grandi visiere di sughero e il forcone in mano, il cui nome riconduce al vento (indispensabile ai contadini per  separare la pula dal grano); le figure del carnevale di Ollolai di “ Su Turcu”, “Sa Maritzola”, “Maria Vressada”, “Maria Ishoppa” ,“Sa Mamma e Su Sole”, “Su Caprarju”; la maschera “a gattu” di  Sarule, con le gonne del costume al rovescio, un velo nero sul viso, una copertina bianca come copricapo e una fascia rossa in testa; “Sos Murronarzos, Sos Maimones, Sos Intintos” di Olzai; i “Maimones” di Oniferi;  “Sos Corriolos” e “Sa Maschera ‘e cuaddu” di Neoneli; le “mascheras nettas e bruttas” di Lodè, sos Corrajos di Paulilatino e tanti altri.

Inoltre si stanno riscoprendo molte altre maschere: è il caso dei “Cotzulados” di Cuglieri, affascinanti nei loro abiti di conchiglie e nel mono-corno sulla fronte; dei “Colonganos” di Austis, vestiti di pelli, ossa e rami di corbezzolo; de “su Corongiaiu” di Laconi.
Il dibattito sulla loro “autenticità”, tuttora in corso, è incentrato sulle dubbie e scarse testimonianze utilizzate per la ricostruzione delle medesime maschere. Ogni località rivendica una tradizione peculiare, ogni paese vuole la “sua” maschera, a costo di inventarsela o di copiarla. Il problema della produzione di “autenticità” e “tradizione” rimane centrale soprattutto per una regione chiamata a vincere la sfida del turismo, che deve quindi decidere quali immagini vendere di se stessa, stabilendo dove inizia il commercio e finisce l’autenticità. L’importante in fondo è chiarirsi le idee.  
Il Carnevale si chiude infine il mercoledì delle Ceneri a Ovodda, con una vera e propria anarchia di festeggiamenti indifferenti all’inizio della quaresima e alla conseguente esigenza di penitenza da parte del clero.


Valentina Lisci
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Foto: Andrea gambula - http://www.3stops.com
Bibliografia e Sitografia
Dolores Turchi, “Maschere, miti e feste della Sardegna”.
Giulio Concu, Franco Ruiu, “Maschere e Carnevale in Sardegna”.
Salvatore Cambosu, “Miele Amaro”.
http://www.carnevaleottana.it/index.html
http://www.mamoiada.net
http://web.tiscalinet.it/GAVOI/Scuola%20media.html
http://www.sardegnacultura.it/grandieventi/carnevale/
http://www.cuncordudecuglieri.it/cotzulados_Turchi.htm
http://www.comunesarule.it/Maschera_a_gattu.html



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