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Il caso del Nobel a Dario Fo. Alcune mie considerazioni critiche contro-corrente dopo l’intervista a Massimo Giletti.

Creato il 22 febbraio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Kinglearpainting_jpegdi Rina Brundu. Mi dispiace scrivere ciò che andrò a scrivere, soprattutto perché adesso Dario Fo è un signore anziano, con un sorriso anche dolce e di norma io ho grande rispetto per le persone di una data età: la saggezza infatti è frutto della nostra capacità neuronale ma anche del suo lavoro negli anni, senza il trascorrere del tempo non avrebbe mai lo stesso valore. Anzi, non sarebbe!

Ripeto, mi dispiace, ma come da mio stile I will not be beating about the bush, ovvero non cincischierò e dirò chiaramente che ancora non capisco il perché gli sia stato assegnato il Premio Nobel; detto altrimenti non capisco quale sia il suo claim-to-glory, mi sfugge la ragione importante che, una volta andato (speriamo il più tardi possibile), dovrebbe spingere i posteri a rimpiangerne la dipartita. Intendiamoci, Dario Fo è senz’altro un grande attore, un affabulatore, un letterato, un personaggio che ha speso la vita a studiare e a svolgere un dato lavoro. Tuttavia, il Premio Nobel è una cosa seria, almeno lo è per certe discipline come per esempio la Fisica e la Medicina, per questo motivo io ritengo che dovrebbe esserlo anche quando riguarda la Letteratura.

A leggere la motivazione dell’Accademia svedese, nel 1997 “Il Premio Nobel per la Letteratura viene assegnato quest’anno allo scrittore italiano Dario Fo, perche’, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignita’ agli oppressi”. Curioso, ho una data conoscenza della storia dei “fool” e dei giullari, specialmente delle loro gesta quasi epiche in plays shakesperiani straordinari come, per esempio, il King Lear, ma francamente mi riesce difficile comparare quelle perle di saggezza, e di conoscenza della natura umana, elisabettiane con gli ipse-dixit e gli exempla foiani. Soprattutto, quando io penso a Dario Fo non vedo un character che – indipendentemente da quella che poteva essere la sua volontà, sulla quale non mi esprimo – si è battuto per “dileggiare” il potere “restituendo la dignità agli oppressi”, quanto piuttosto un personaggio che ha sovente fatto da spalla a un dato tipo di potere (il potere infatti per un vero “fool” elisabettiano non ha segni che lo marcano in positivo o in negativo, ma esiste sempre uguale a se stesso), ci ha camminato fianco a fianco, è cresciuto alla sua ombra e ha sovente propugnato una discutibile dottrina intellettuale di tipo dichiaratamente manicheo che prediligeva le opposizioni semantiche tipo buoni vs cattivi, eletti vs dannati, etc, etc, etc.

Durante l’odierna intervista a Massimo Giletti (L’Arena, RAI1), Fo ha candidamente ammesso che al tempo dell’assegnazione del premio, una parte dell’establishment culturale italiano non era felice della scelta. Secondo lui non erano contenti perché il suo professionismo non rientrava dentro una data “categoria” che immagino fosse quella del letterato tout-court. Non so se questo corrisponda al vero, potrebbe essere. Di sicuro, per quanto mi riguarda, il premio non glielo avrebbero dovuto assegnare non perché non era inquadrato dentro una dimensione specifica ma semplicemente perché manca il risultato. Insomma, è un poco come se l’altro anno avessero assegnato il premio per la Fisica a Peter Higgs non perché il suo celeberrimo bosone è stato effettivamente “tracciato” dai ricercatori del CERN, quanto piuttosto perché lui l’aveva teorizzato tempo fa. Sfortunatamente in ambito scientifico esiste una differenza sostanziale tra il teorizzare e il provare, mentre tutto il difficile percorso necessario per riempire quel “gap”  sovente costa fatica, ingenti spese e infinite vite perdute nell’anonimato senza appello a cui sempre è condannato lo scienziato che non riesce a portare il risultato a casa.

Ecco, questa stessa logica dovrebbe essere applicata anche nel campo della Letteratura se si vuole continuare a considerarla una materia decentemente seria. Senza scomodare tanti altri grandi che avrebbero meritato quel premio al posto di questo pur bravo comico italiano (accozzato? Il dubbio mi assilla e ritengo che occorrerebbe anche capire chi sono coloro che lo hanno sponsorizzato, avere i loro nomi e cognomi, almeno per accertarne il pedigree professionale), basti dire che non sarebbero sufficienti sette vite a Fo, e a tanti suoi colleghi, per consegnare al mondo le storie, i momenti di riflessione, i sogni condivisi, la capacità retorica e immaginifica che è riuscito a regalargli la straordinaria arte gotica resa sublime dallo spirito geniale di Stephen King. Il resto, direbbe Riccardo III, è silenzio o, al più, sono le intricate vie del nepotismo intellettuale italico.

Featured image, “King Lear and the Fool in the Storm” by William Dyce

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