È in odore di Oscar Il caso Spotlight, film di Tom McCarthy, uscito nelle sale italiane lo scorso 18 febbraio. Non è una pellicola innocua, prende spunto infatti dalla storia del team di giornalisti investigativi del Boston Globe, soprannominato per l'appunto Spotlight, che nel 2001 viene incaricato dal nuovo direttore del quotidiano, Marty Baron (Liev Schreiber), di indagare sulla notizia di cronaca di un prete locale accusato di aver abusato sessualmente di decine di giovani parrocchiani nel corso di trent'anni.
La Chiesa Cattolica a Boston aveva e ha, come è immaginabile, un grosso potere e i rischi legati ad un'inchiesta del genere sono evidenti, ma il caporedattore Walter "Robby" Robinson (Michael Keaton), i cronisti Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Michael Rezendes (Mark Ruffalo) e lo specialista in ricerche informatiche Matt Carroll (Brian d'Arcy James) cominciano ad indagare sul caso. Man mano che le interviste agli adulti che avevano subito molestie quando erano piccoli vengono registrate, emerge con sempre maggiore evidenza che il fenomeno di protezione dei preti pedofili e l'occultamento delle prove è molto più grave ed esteso di quanto si potesse immaginare. Nel 2002 il Globe pubblica queste rivelazioni in un dossier che sconvolge la città ma che apre la strada a simili svelamenti in tantissimi altri posti un po' in tutto il mondo. Questo scioccante reportage sulla pedofilia nell'arcidiocesi di Boston, che sfocia in un più ampio "Roman Catholic Church sex abuse scandal", viene premiato con il Pulitzer nel 2003.
Pur inserendosi nel filone del film d'inchiesta, la pellicola risulta avere un andamento piuttosto lento, appesantita da un'eccessiva verbosità che ci rimanda alle rappresentazioni teatrali. Insomma, in alcuni momenti ci si annoia e siamo lontani da opere avvincenti come Tutti gli uomini del presidente (1976). Sarebbe stato probabilmente più facile fare de Il caso Spotlight un documentario che avrebbe potuto trattare il delicato tema con un ritmo più veloce e scattante.
Ultimamente pare essere di moda il portare sul grande schermo temi di stretta attualità (pensate, ad esempio, al recente La grande scommessa dedicato alla crisi finanziaria del 2007-2008) o inchieste che, partite dalla redazione di un giornale o di una TV (a marzo ci aspetta l'uscita di Truth di James Vanderbilt), hanno cambiato in qualche modo la Storia. Purtroppo, a volte lo si fa non rinunciando a "spiegoni" che inficiano la scorrevolezza di film che non dovrebbero soltanto istruire ma anche intrattenere. Ovvio, poi, che un cast stellare, oltre a garantire una recitazione di livello assoluto (come, a dir la verità, accade anche ne Il caso Spotlight), attiri di più gli spettatori e anche la considerazione di chi assegna i premi più ambiti (la pellicola di McCarthy ha ottenuto sei candidature agli Oscar).
Il merito più grande del film è, comunque, quello di concentrarsi su un tipo di giornalismo in estinzione. "L'inchiesta è un "malato terminale" nell'America di oggi", sostiene Walter "Robby" Robinson. In realtà, è un modo di lavorare che oggi sta sparendo in tutto il mondo perché, anche se può sembrare assurdo, l'informazione è sempre più censurata e taciuta.
"Malgrado l'ego si faccia sentire e io dia un grande peso all'arte, i veri eroi sono i giornalisti. Non noi attori che li interpretiamo", ha detto invece Michael Keaton. "Sono uno che si informa, legge quotidiani, ha fame di approfondimento: dispiace constatare come nel mio Paese sia ogni giorno minore la voglia di dare al pubblico un'informazione degna di questo nome e lontana dal superficiale". E se lo dice lui, come non credergli?