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Il castello dei destini incorciati, emblema dell’inconscio collettivo

Creato il 20 ottobre 2010 da Scrid

Raccontare delle storie ispirate alle figure dei tarocchi. L’idea viene suggerita ad Italo Calvino in un “Seminario internazionale sulle strutture del racconto”. Lo spiegherà lui stesso nella nota di chiusura della prima edizione de “Il castello dei destini incrociati”, pubblicata da Einaudi nel 1973.

Il volume si compone di due testi: uno ispirato dal mazzo di tarocchi visconteo del xv secolo, per l’appunto “Il castello dei destini incrociati” e l’altro, “La taverna dei destini incrociati”, che si rifà ai cosiddetti tarocchi marsigliesi, molto simili alle carte da gioco ancora oggi in uso, di fattura più popolare. La stessa differenza di registro si riscontrerà anche nel linguaggio usato da Calvino per le due diverse sezioni del libro.

Dei signori sperdutisi in un bosco, trovano rifugio in un castello ma, per qualche arcano motivo perdono la capacità di comunicare attraverso la parola. Racconteranno le loro vicende sfruttando l’unico mezzo a disposizione: i simboli raffigurati sui tarocchi, disposti secondo un ordine e un senso compiuto.  

Ogni racconto corre incontro a un altro racconto e mentre un commensale avanza la sua striscia un altro dall’altro estremo avanza in senso opposto, perchè le storie raccontate da sinistra a destra o dal basso in alto possono pure essere lette da destra a sinistra o dall’alto in basso, e viceversa, tenendo conto che le stesse carte presentandosi in un diverso ordine spesso cambiano significato.

Impresa non facile, quindi, sia per i personaggi che per l’autore. Calvino stesso spiegherà: “non riuscivo a disporre le carte in un ordine che contenesse e comandasse la pluralità dei racconti; cambiavo continuamente le regole del gioco, la struttura generale le soluzioni narrative” così come l’io narrante dirà “quello che rimane di me è solo l’ostinazione maniacale a completare, a chiudere, a far tornare i conti [..] vado avanti solo per puntiglio per non lasciare le cose a mezzo”.

 

Un minimo comune denominatore, però, esiste ed è quello che ha invogliato Calvino a concludere il libro malgrado le difficoltà e perfino a pensare di scrivere un castello dei destini incrociati in chiave più moderna (con il fumetto). Ossia, rappresentare la coscienza collettiva.

Così, la griglia completa dei tarocchi disposta sul tavolo diventa la Città del Tutto >”dove tutte le parti si congiungono, le scelte si bilanciano, dove si riempie il vuoto che rimane tra quello che ci s’aspetta dalla vita e quello che ci tocca [..] dove si è ammessi solo attraverso una scelta e un rifiuto, accettando una parte e rinunciando al resto”.

E, infatti, la Città del Tutto è sempre attraversata da personaggi in totale opposizione gli uni dagli altri che, però, perseguono obiettivi complementari: Orlando e Astolfo, Faust e Parsifal, l’alchimista e il cavaliere. Secondo Calvino i personaggi in questione o riescono ad essere allo stesso tempo guerriero e savio in ogni cosa che fanno e pensano, oppure, non saranno nessuno.

Compito dello scrittore è trovare, allora, una traccia comune che unisca l’impresa cavalleresca alla conquista della saggezza. “Così ho messo tutto a posto” conclude “sulla pagina almeno. Dentro di me tutto resta come prima”.


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