Il protagonista della cornice narrativa, perdutosi in un bosco, giunge in un castello ed è qui invitato ad unirsi ad un banchetto con altri convitati arrivati al maniero per caso e per strade diverse; ben presto egli si rende conto di non essere in grado di parlare, perché un'inspiegabile forma di mutismo ha colpito lui e tutti i convitati. Ciascuno, tuttavia, è desideroso di raccontare agli altri la propria storia e l'unico modo per farlo è servirsi delle immagini di un mazzo di tarocchi, nella speranza che il repertorio di figure di anziani, donne, allegorie e esseri favolosi permetta agli altri di comprenderne il significato particolare che ciascuna assume nel racconto del mazziere di turno. Ecco, allora, che un ricco giovane o si identifica col Cavaliere di Coppe, una donna insidiosa è la Regina di Spade, il Re di Spade rappresenta Orlando che impugna la sua Durlindana e il Cavaliere di Bastoni è nientemeno che Astolfo; ma ci imbattiamo anche nel seme dei Bastoni, che rappresenta l'incrocio delle strade e le scelte che esso comporta, nella Ruota della Fortuna e in un Asso di Coppe che può rappresentare un'antica e monumentale città, così come il Sacro Graal o, ancora, il calice che accoglie l'elisir di lunga vita distillato da un aspirante alchimista identificato col Re di Denari.
Il castello dei destini incrociati è la storia delle infinite possibilità, delle combinazioni inesauribili che possono strutturare la narrazione di una storia e, allo stesso tempo, delle storie fra di loro. Sì, perché ciascun commensale non si limita a rimescolare ogni volta il mazzo per narrare la propria storia scegliendo solo le carte a lui utili e disponendole nell'ordine prescelto, ma si muove lungo la linea di quelle predisposte da uno dei narratori che lo hanno preceduto, agganciando ad essa la propria vicenda con i tarocchi rimasti o approfittando della presenza di una stessa carta in un altro braccio di storie, come se tutto concorresse alla costruzione di un immenso cruciverba in cui le lettere a disposizione sono limitate e bisogna costruire il maggior numero possibile di parole sfruttando quelle già presenti sul tabellone.
Il libro appare dunque una sfida al narratore e al lettore, affinché da poche possibilità e da una materia prima ridotta possano scaturire infiniti sensi di interpretazione, che fanno di una Regina di Spade il simbolo della giustizia ma, al contempo, una donna che si tramuta in vampiro, assumendo le fattezze dell'Arcano XIII, la Morte. I racconti del Castello appaiono più semplici e più facilmente seguibili rispetto a quelli della Taverna, sia per il costante riferimento alle carte (richiamate per nome oltre che con le figure a margine), sia per lo stile più lineare e conciso, mentre la seconda parte inizia a dare per scontate alcune simbologie, non spiegando più esplicitamente l'associazione immagine-ruolo, e si esprime in uno stile più concitato, che rende molto più labirintico e spiazzante il racconto. C'è, insomma, una sorta di progresso dall'applicazione cauta della tecnica al suo potenziamento irrazionale e caleidoscopico, in cui più storie arrivano ad intrecciarsi anche in uno stesso racconto e l'urgenza narrativa dei commensali si fa più pressante, talvolta soffocante. Se la prima parte risulta estremamente godibile, la seconda richiede diversi sforzi per sciogliere le simbologie e capire gli intrecci, rendendo necessaria la rilettura di diversi passaggi o dell'intero racconto.
L'incrocio dei destini
Se dovessi dare un giudizio puramente estetico di questo libro (piaciuto/non piaciuto), sarei ben lontana dall'entusiasmo espresso in altri casi di fronte a Calvino, perché questo bifrontismo ha fatto sì che l'impressione inizialmente stupefatta ed estasiata si intiepidisse nella seconda metà del testo. Tuttavia sarei una pessima studiosa di letteratura se mi limitassi a liquidare Calvino con le tre stelline di aNobii o Goodreads, e, sebbene molti lettori in una recensione su un blog cerchino principalmente di capire se un libro possa piacere o meno, vorrei spendere qualche riflessione più approfondita.Non consiglierei il libro per il gusto della lettura, ma ritengo che, come le Lezioni americane (al contrario lette con piacere), Se una notte d'inverno un viaggiatore o Le città invisibili, anche questo testo abbia molto da offrire a chi cerca, più che il godimento narrativo, il gusto dell'analisi e della ricerca tecnica. Il castello dei destini incrociati, infatti, è ammirevole proprio per il suo disegno architettonico, per la tensione cui sottopone il processo creativo, soprattutto in quei momenti in cui viene descritta la foga dei commensali che cercano di capire come unire la loro esperienza alle altre e nei passi in cui lo stesso autore cerca di raccontarsi, ricercando nella spada impugnata da un re lo stilo e nelle Coppe i calamai svuotati dell'inchiostro, fino alla riflessione sull'origine della scrittura (interessantissimo il suo incrocio con la carta del Diavolo) e sulle simbologie che possono essere attribuite alle carte per trasfigurarle in storie a noi note per altri canali, come quelle della letteratura (oltre all'Orlando Furioso vengono richiamati i drammi classici e shakespeariani) e dell'arte.
Questa ardita costruzione pone Il castello dei destini incrociati in continuo dialogo con tutta l'opera di Calvino, ma soprattutto con Le città invisibili, scritta proprio fra le due metà di questo testo (1972). Ho infatti notato una similarità di intenti, al di là della grande diversità dell'esito e della forma delle due rassegne di racconti (che, nel caso delle Città, sono descrizioni): non solo siamo di fronte a due una cornici narrative, l'una con protagonisti muti, l'altra con due personaggi che parlano fra loro, ma entrambe le serie di novelle procedono per immagini (i tarocchi e le città dipinte dalla fantasia di Marco Polo) e rappresentano un susseguirsi di suggestioni e racconti caricati di elementi fiabeschi. In tutti e due i libri il narratore principale riferisce storie che appartengono ad un'alterità (le vicende degli altri commensali e le descrizioni delle città straniere) e non riesce o non vuole raccontare la propria: così come Marco sfugge abilmente alla richiesta di Kublai Kan di parlare della sua Venezia lontana anche quando ne rievoca dei particolari nelle altre descrizioni, allo stesso modo il narratore de Il castello dei destini incrociati confonde, intreccia e dissolve la propria storia in quella degli altri personaggi, mentre il suo ricordo e l'esperienza personale si perde nei racconti di cui è diventato spettatore, facendogli comprendere che le possibilità dell'essere e dell'accadere sono infinite come, virtualmente, potrebbero esserlo i mondi visitati da Polo.
Prendemmo a spargere le carte sul tavolo, scoperte, come per imparare a riconoscerle, e dare loro il giusto valore nei giochi, o il vero significato nella lettura del destino. Eppure non sembrava che alcuno di noi avesse voglia d’iniziare una partita, e tanto meno di mettersi a interrogare l’avvenire, dato che d’ogni avvenire sembravamo svuotati, sospesi in un viaggio né terminato né da terminare. Era qualcos’altro che vedevamo in quei tarocchi, qualcosa che non ci lasciava più staccare gli occhi dalle tessere dorate di quel mosaico.C.M.Articolo originale di Athenae Noctua. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore e senza citare la fonte.