Una famiglia, cinque persone. C’è un uomo, Gabriel Lima, un insignificante quarantenne senza sogni che si affanna nel commercio di un veleno per topi artigianalmente fatto in casa. C’è una donna, Beatriz, di una bellezza sbiadita e scontornata dal tempo, come quelle vecchie polaroid che di tanto in tanto si trovano in fondo ai cassetti. Ci sono infine tre ragazzi, figli di Gabriel e Beatriz, impegnati dalla mattina alla sera nell’improvvisata quanto sgangherata azienda di famiglia. I loro nomi, quasi come se il destino avesse voluto farsi beffa di loro, sono Utopia, Porvenir e Voluntad (Utopia, Futuro e Volontà). Una famiglia qualunque? Una famiglia come tante? Non esattamente, visto che il capofamiglia soffre di una grave forma di follia che porterà le vite di tutti allo sfacelo.
Come si intuisce dal dialogo inserito in apertura, l’origine del “mal d’etre” della famiglia Lima si può ricondurre ad un avvenimento accaduto molto tempo prima, quando Gabriel impose a Beatriz la scelta di una vita assurda, completamente scollegata dal resto del mondo. Secondo gli accordi l’uomo sarebbe stato l’unico a poter mettere piede fuori di casa, mentre la moglie e i (futuri ed eventuali) figli avrebbero potuto risparmiarsi le cattiverie del mondo grazie ad una forzata clausura tra le mura domestiche. Non la moglie, non i suoi figli, avrebbero dovuto porsi il problema di cosa potesse esserci oltre quel maestoso portone, la cui apertura, allarmata da raffazzonati campanacci, era esclusiva del padrone di casa. Il castello della purezza è esattamente questo: un luogo dove spazio e tempo, così come li conosciamo noi, non hanno alcun senso. Un limbo nel quale è preservata quella purezza che deriva dell’incomunicabilità, dalla non esistenza, dove le regole sono dettate dai tempi del lavoro, dai tempi dello studio e dai tempi della punizione, e risate e allegria sono bandite. Un castello chiuso, sbarrato, addirittura murato, dal quale non si può osservare nulla se non un insignificante quadrato di cielo che fa capolino sopra il piccolo cortile centrale. Ma nemmeno il cielo dimostra un briciolo di pietà e l’unica cosa che sembra avere da offrire è pioggia, pioggia e ancora pioggia. Solo poche volte si vede brillare il sole, ma solo nelle brevi scene in cui l'uomo esce di casa per cercare di vendere il suo miserabile rodenticida. Ergo, il sole ha fatto la sua libera scelta. La pioggia è tutto ciò che rimane in assenza del sole.
Tratto da “La carcajada del gato” (La risata del gatto), scritto nel 1964 dall’autore messicano Luis Spota, “El castillo de la pureza” di Arturo Ripstein rappresenta uno dei massimi vertici espressivi dell’intera cinematografia messicana. Pochi come Arturo Ripstein hanno saputo rappresentare con l’ausilio delle immagini ciò che possiamo definire, senza rischi di contraddizione, il “neorealismo messicano”. Per dovere di completezza va detto che “La carcajada del gato”, basato su un fatto di cronaca avvenuto negli anni Cinquanta, ha altresì ispirato una pièce teatrale di Sergio Magaña dal titolo"Los motivos del lobo" (Le ragioni del lupo) e il più recente lungometraggio “Kynodontas” (Dogtooth) del regista greco Giorgos Lanthimos.
Ripstein affronta un tema altre volte dibattuto, quello della rappresentazione dell’essere umano come un dio e un diavolo allo stesso tempo. Cosa è buono e cosa è cattivo? Chi può affermare che v’è davvero una netta separazione tra le due cose? Non è forse vero che il bene e il male sono due concetti che l’uomo stesso ha creato per esorcizzare le sue paure, che non sono leggi di natura e assumono forme diverse nelle diverse società? La moralità e l’immoralità non sono solo dei punti di vista, perfettamente intercambiabili tra di loro? E quanto e in che modo il fine giustifica i mezzi? Volendo inquadrare “El castillo de la pureza” dal punto di vista del protagonista maschile, c’è sicuramente un vago raziocinio alla base del suo comportamento. Peccato che quando bene e male si avvicinano troppo, formando un tutt’uno incontrollabile, qualsiasi proposito di integrazione non possa che andare a rotoli, sfociando nel patologico e nella conseguente devastazione del sistema. Sì, perché alla fine è l’oste che serve il conto e non importa se i piatti di portata non sono stati gli stessi di cui avevamo fantasticato leggendo il menù. Mai sottovalutare le variabili in gioco: sono quelle che alla fine ti fregano.
Gabriel non avrebbe mai potuto perseguire il suo progetto perché le variabili, in quanto tali, erano destinate a variare. Quello che all’inizio poteva essere un gioco tra innamorati non avrebbe potuto reggere alla quotidianità, allo scorrere del tempo, e Gabriel Lima di questo non si era affatto accorto, trasformando ciò che pensava fosse buono nel male più assoluto, in ciò che di più odioso e malvagio possa esserci in questo mondo: la violenza contro una donna. Beatriz, la sua donna, che nonostante tutto non riesce a ricambiare il male ricevuto.
Gabriel, tutto andrà bene. Doveva succedere. Non hai mai voluto parlare di queste cose ma loro sono solo bambini e ti amano tanto quanto me. Ti ho sempre amato, Gabriel. Ti ricordi quando eravamo fidanzati e andavamo in campagna? Tutto era così bello! Eri sempre felice. Erano bei tempi. Mi guardasti e dicesti: "Dobbiamo vivere senza che nessun altro possa entrare nella nostra vita”. E per un po’ tutto è andato bene. Ma sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa. Tu non hai mai messo in conto che alcune cose avrebbero potuto cambiare nel corso del tempo. Ora tutto è cambiato. Ho esaudito tutti i tuoi desideri per il bene dei miei figli. Per loro e per la pace di questa casa, la pace di cui tu nemmeno ti accorgi, la pace che non capisci e che nemmeno sei in grado di apprezzare. Ma, lo sai, io ti amo così tanto che ti lascio approfittare di me.
Non ho letto “La carcajada del gato” e quindi non so quanta parte del libro sia effettivamente stata trasposta nel film di Ripstein e quante invece siano le invenzioni o le aggiunte del regista, però la metafora del topo è molto efficace per la sua valenza sociale, psicologica e anche, perché no, religiosa, in una società fondamentalmente cattolica come quella messicana. Il topo con la sua organizzazione sociale incarna l'idea del gruppo che prevale sul singolo, ovvero la morte dell’ego, ma in senso negativo, perché lo si associa alle tenebre: non a caso per il cristianesimo il topo, che striscia nell'oscurità e si accoppia e si nutre freneticamente, è un essere impuro, reietto, peccaminoso, persino demoniaco, mentre per la psicanalisi classica (leggesi Freud) incarna il desiderio disatteso di purezza, quelle caratteristiche negative che l'uomo contiene in sé ma a che a livello conscio non può accettare. Forse per questo l'umanità è da sempre nemica giurata dei topi e, se non ha granai da difendere, li stermina comunque sotto l'egida della ricerca medica.
Gabriel Lima, sopprimendo i topi, cerca di sopprimere l'immondo dalla sua stessa razza, senza rendersi conto che il desiderio non si può imbrigliare né sopprimere perché è innato. Un effetto, però, la sua follia l'ha ottenuto, ed è quello di aver plagiato la personalità dei suoi figli che diversamente dalla madre, che ha conosciuto il mondo, alla fine sentono l'esigenza di ribellarsi solo per una sorta di istinto e non per l'aderenza a valori e credenze che, di fatto, appartengono al mondo di fuori, e che quindi non conoscono e non possono abbracciare. Il crimine e il peccato di Gabriel è soprattutto questo: quello di aver privato i propri figli della capacità di raziocinio e di scelta, rendendoli di fatto inadatti al mondo. E così, il film si chiude sull'immagine di persone dallo sguardo perso, intimorito, che hanno conquistato finalmente la libertà ma forse non sanno bene cosa farsene, come uccelli cui si apre la gabbia ma che sono ormai troppo addomesticati per tornare a volare.