di Carlo Camboni
Non avevo previsto che il glorioso hotel stesse attraversando una fase di rinascita dalle ceneri di se stesso, una nuova ristrutturazione, forse la decima, e tra polvere, calcinacci, scortesie e brutali muratori indaffarati nei loro lavori potrei giurare, magari sulle memorie di Marlene Dietrich, di aver parlato con una sopravvissuta dell’età d’oro dell’Hotel, in carne e ossa, almeno apparentemente: il mio fantasma dall’aria pericolosissima ciabattava in vestaglia rossa dalla hall verso l’ascensore e mi squadrava con aria truce mentre aspettava un amico, aveva in mano una bottiglia di roba forte: “hi, guy”, ai vecchi clienti stanziali è stato consentito di restare ma nella hall deserta non c’è nulla che evochi il passato, nessuna foto, nessun dipinto a parte il mitico camino che è ancora là, spento. Qualche targa ricorda Leonard Cohen, Bob Dylan, Arthur Miller e anche se non ho percepito le presenze che più mi incuriosiscono, quelle di Robert Mapplethorpe e Patti Smith, ho visto la loro stanza, la 107, per esempio.
Due chiacchiere col portiere, ho il permesso di curiosare qua e là per l’albergo.
Apprendo con tristezza che presto avremo un cinque stelle, come se New York ne fosse improvvisamente sprovvista, una pena, immensa!
Così mi viene voglia di leggere un libro appena tradotto in Italia, “Viaggio nel palazzo dei sogni” una vera e propria messa da requiem del Chelsea Hotel in 511 pagine scritte da Sherill Tippins che ci accompagna nei meandri fatiscenti di questo albergo in cui fasti, splendori e decadenza sono cristallizzati nell’elaborazione della sua storia rievocata in pagine ricche di dettagli e storie avvincenti.
Suicidî, omicidî, sparatorie, rapine, collassi, incendi, drag queens impazzite, punk rockers, trotzkisti, personalità di ogni possibile e non immaginabile orientamento sessuale, compositori, pittori, attricette, iguane, puzzole, pappagalli, scarafaggi anche umani, stanze ingombre di libri di occultismo e marijuana trasformate in rigogliose foreste pluviali tropicali con alberi importati dal Borneo, per gradire, per trarre ispirazione, o semplicemente per respirare, per esistere.
Secondo il pensiero fourierista gli artisti, cui erano riservati degli ateliers nei piani alti, avrebbero trasformato flussi di pensiero e passioni in narrazioni condivise in cui la comunità si sarebbe riconosciuta in nome di un’evoluzione basata sulla forza di una comunione d’intenti. La società evolve e prospera soltanto nella diversità: senza scambio di idee e creazione di nuove identità attraverso un nuovo sistema di valori si finisce per scimmiottare e perpetuare il déjà vu.
Ho il sospetto fondatissimo che il fantasma di Fourier abiti le fondamenta del Chelsea, e il suo spirito sia impastato al cemento e ai mattoni che hanno respirato il respiro di artisti che per una maledetta ragione o per puro caso sono andati in cerca dei guai che quelle solide mura avrebbero garantito: qui l’amato Burroughs scrisse “Il pasto nudo” tra mille inalazioni e nebbie, Kerouac “On the Road” fumando tutto, Miller “Dopo la caduta”, mentre cercava pace in seguito al divorzio dall’eterna Marilyn; trovò altra confusione, nuove amarezze.
Coi suoi “dieci piani e seicento abitanti” il Chelsea Hotel ha costituito sin dai primi del novecento uno dei mille costosi modi di vivere a New York.
È la lettura del libro della Tippins che fa riemergere fantasmi e ombre oppure avevo già visto tutto durante la mia visita novembrina?
È evidente: il Chelsea respira ancora, racconta… si sentono voci nei corridoi, rumori dal passato.
Nella sala da pranzo interna mi pare di intravedere la Peggy Guggenheim di sempre, più ingioiellata che mai, praticamente Re Mida: eccola mentre cerca di vendere le opere di Jackson Pollock declamando innanzi a collezionisti e avventurieri avidi di novità la certezza del suo futuro nella storia dell’arte. Niente di meglio per Pollock ubriaco e irascibile che procurarsi un bel crollo nervoso, vomitare sul tappeto e finire con la testa sul piatto davanti all’Eldorado che la cara Peggy cerca di fargli intravedere…
E qui? Danzatori seminudi piroettano nella suite di Katharine Dunham, la musica africana suonata al massimo volume, rigorosamente fino alle tre del mattino, per le prove di una sontuosa Aida al Metropolitan; (narra la leggenda che, non appagata dalla performance dei suoi ballerini, la Dunham portò in ascensore due leoni adulti per rendere più “autentici” i balletti!)
Pare che durante il blackout del 1978, ricordato per i saccheggi e i numerosi arresti in città, gli abitanti del Chelsea si dilettarono a girovagare per l’albergo muniti di candele stupendosi candidamente degli effetti delle ombre sui muri e, forse in preda ad uno stupore lisergico, indossarono abiti da gran gala per recarsi in strada a distribuire panini, spinelli e sangria ai passanti.
Tutto decade, anche il successo, senza colpa né orgoglio.
Fu Sid Vicious, all’apice del suo impegno nella distruzione di sé, a decretare l’inizio della fine di un’era di perdizione il 12 ottobre 1978, quando venne ritrovato il corpo di Nancy Spungen, sua compagna.
Sid, timido, confuso e manipolato da Nancy, si esprimeva con grugniti e brevi frasi (“Buona ‘sta roba, cazzo”) ma droga e disperazione non ammettono deroghe; strafatti tutto il giorno provocarono un incendio, l’ennesimo, senza rendersene conto; il resto è storia.
Il vecchio Chelsea stava morendo, New York no.
Così, dopo l’acquisto dell’immobile nel 2011 per 80 milioni di dollari da parte di una società immobiliare, la Chetrit Group, il falansterio che Fourier aveva immaginato e l’architetto Hubert realizzato, diventerà altro, qualcosa che al momento è un cantiere mentre “il futuro sta davanti a noi”.
I sogni del vivere e creare in comune sono momentaneamente infranti e nelle utopie troveremo, prima o poi, qualche traccia di verità, ne sono sicuro.
Carlo Camboni