Fu durante la guerra partigiana che il cibo divenne il trait d’union fra la vita e la morte: ora raro e pessimo, ora abbondante e migliore che negli anni di pace. Il peggiore fu nell’autunno avanzato, quello del 1944, quando gli alleati sbarcarono in Francia e i tedeschi decisero di tenere la linea delle Alpi e di ripulire le valli dai partigiani. Cominciò una serie interminabile di rastrellamenti. Non potevamo accettare il combattimento, inferiori com’eravamo per armi e munizioni, ma non volevamo cedere. Lì ho capito che cosa significa per tutti i viventi il controllo del territorio. Il tuo angolo di sopravvivenza. Ci eravamo ritirati nei boschi di Nunsiera, sopra Sampeyre, la nostra prima sede in valle. Il villaggio è stato abbandonato, resta un solo sentiero che sale da Sampeyre e tutto avviene secondo un rigido copione. Alle sei del mattino i tedeschi escono da Sampeyre, prendono la mulattiera, vengono per ucciderci e noi usciamo dai fienili dove abbiamo dormito vestiti, salvo le scarpe. Il cuoco e i suoi aiutanti vanno a mettere in salvo nel bosco i pentoloni e i sacchi di riso e di castagne. Li riprenderemo alle sei di sera, quando si alza il razzo bianco che ordina la ritirata del nemico e finalmente avremo il nostro cibo: riso e castagne bollite. Poiché non ci sono i piatti vanno bene le ardesie dei tetti. Il mese dopo scendiamo nelle Langhe, le colline dell’abbondanza e prima di entrare nella terra promessa ci fermiamo in una cascina di Monchiero, in riva al Tanaro; al mattino arrivano le donne a chiederci se vogliamo tajarin, uova e salsicce. Quasi non ci crediamo.. E nei giorni seguenti metto il comando a Monforte da Felicin, un ristorante da stella Michelin, da portarci, a pace arrivata, la moglie o la morosa. Noi di buona forchetta e di buon bicchiere siamo dei conservatori. Uno dei crucci della nostra età matura è che anche nei nostri alimenti sia cambiato qualcosa; che il formaggio castelmagno non abbia più l’erborinato della maturazione delle stalle, perché tutti i ristoranti lo vogliono, il prezzo è salito alle stelle e chi lo fa vuole venderlo al più presto. E’ per questo che ogni tanto salgo nella Serra di Ivrea fino a quella valletta magica dove sta il convento di Bose a trovare il priore Enzo Bianchi. Lui, uomo di Dio, per ritrovare quella certezza comune; la fedeltà alla buona terra e ai suoi frutti, la terra in cui siamo nati e cresciuti. L’ultima volta mi ha fatto i cardi -gobbi- in bagna cauda e le tagliatelle larghe e un po’ ruvide per tenere il sugo di cacciagione. C’erano al nostro tavolo il monaco cuoco e il monaco cantiniere. Ogni tanto la campana ricordava i tempi conventuali e dalla finestra si vedevano file di monaci in marcia. Dove vanno? Chiedevo. Alla preghiera di ringraziamento, diceva il priore. Ma sì, ringraziamolo il buon Dio. -Giorgio Bocca, Le mie montagne, Feltrinelli, 2006-
IL COCO NANO
In una bella pentola metto:
un po’ di sale grosso,
cinque spicchi d’aglio rosso,
sette foglie di salvia,
nove bacche di pepe nero,
mezzo chilo di Coco Nano,
abbondante acqua piovana,
un breve fil d’olio extravergine toscano
e accendo, basso-basso, il fornello;
poi, a cinque salsicce nostrane
prima di bollirle strappo la pelle.
Del pane
a lievitazione naturale
a legna cotto
ne taglio fette sottili
cospargendo così la tovaglia multicolore.
Con il fitto colino
pesco il Coco Nano
e togliendo il pepe
ne conto fino a nove;
dono una salsiccia a bocca
con la simpatica presenza
per lungo nel mezzo tagliata;
il tutto abbondante condisco
con l’extravergine crudo
offrendo gioioso al tracanno
il rosso di Certaldo.
-Renzo Mazzetti-