Il cimitero dei senza corpo (2 di 2)

Creato il 02 settembre 2010 da Ilgrandemarziano
Qui trovo maggiore compostezza tra i visitatori. Senza alcuna concessione al respiro, si scivola tra pannelli che raccontano le tragiche storie delle migliaia di esseri umani passati di qui in più di un decennio di "attività". Ci sono i prigionieri politici, quelli colpevoli solo di far parte di altri popoli (Zingari, Ebrei e Polacchi, ma anche Austriaci, Italiani, Francesi, Spagnoli...), e quelli rei di essere lombrosianamente diversi (le facce da criminali, da asociali, da disadattati, da oziosi...). Gli omosessuali, i preti, i Testimoni di Geova, le prostitute, i vagabondi, gli alcolizzati e i mendicanti. Alla fine si scopre che qui a Dachau non si sono fatti mancare proprio niente. Ci si imbatte nell'astuccio che contiene una quindicina di ciocche di capelli in gradazione dal biondo al rosso al nero, come una cartella colori RAL, numerate (e dunque codificate) per una comoda, rapida e infallibile determinazione del grado di arianità della razza. Stessa cosa per gli occhi. E si può osservare una specie di appoggio orizzontale fatto di listelli di legno, dove venivano fatti disporre bocconi i prigionieri per poter essere bastonati con maggior efficacia (apposito frustino in nerbo di bue flessibile incluso nella confezione). Per non parlare delle sezioni dedicate agli esperimenti scientifici che a Dachau vennero svolti con grande solerzia, vista la grande disponibilità di cavie (umane) a perdere.
E almeno un paio di volte non posso evitare di essere sopraffatto dall'empatia e dalla commozione, come quando lo sguardo mi si posa sulla cartolina disegnata con immenso e tangibile amore, che un ospite del campo ha spedito a casa come augurio alla mamma per la sua festa (vedi a fianco), oppure nella riproduzione del dipinto così intriso di profonda e assoluta disperazione che il prigioniero David Ludwig Bloch realizzò nel 1940 dopo la sua liberazione (vedete qui sotto). Oltre a individui, ci sono anche comitive. Ce n'è una proprio qui, vicino ai pannelli che parlano degli ebrei. La guida parla loro in inglese, ma non so da dove vengano. So che alcuni ragazzi della comitiva si siedono contro un muro della sala, aprono un paio di confezioni di patatine e cominciano a sgranocchiarle. Non fanno casino. Non è che ridano o chissà che. Però quel comportamento mi dà fastidio. Lo trovo irriguardoso. In questa sala ci appendevano i prigionieri con le mani dietro la schiena come maiali pronti per essere scannati. Ci sono ancora i segni delle travi da cui pendevano i ganci, accompagnati dagli agghiaccianti disegni fatti dai prigionieri. Eppure quei ragazzi non ci vedono alcun problema a improvvisarci un bel brunch. Crunch crunch crunch. È un problema mio? È la mia ipersensibilità marziana? Non lo so. Ma intanto il retrogusto di prima è tornato alla ribalta come un conato di bile.

La testimonianza prosegue di tragedia in tragedia fino alla liberazione del 1945. Poi, prosciugati dal lungo orrore, si esce sul piazzale antistante, assolato come un deserto, dove c'erano le due file di diciassette baracche ciascuna che ospitavano i prigionieri. Oggi ne restano solo due, ricostruite per essere visitate, con le brande in legno a castello a tre piani. In fondo al viale, i memoriali dedicati ai cattolici, ebrei e musulmani che qui hanno lasciato la vita, mentre più in disparte il crematorio. Tornando verso l'edificio principale si nota una grande scultura che domina il piazzale. Si tratta del Monumento Internazionale alla Memoria di Nandor Gild (1968) che stilizza un filo spinato con un groviglio corpi umani. Trovo sia molto bella e che valga la pena una fotografia. Ma sembra che, dopo il cancello con la scritta, questo sia il soggetto preferito dai visitatori. Tutti lì davanti a farcisi fare una foto da far vedere alla mamma. E io, che vorrei scattare una foto senza (un cazzo di) nessuno davanti, non riesco. Cioè per un po' paziento e aspetto l'attimo buono. Poi arrivano due tizi (NB non italiani) che hanno tutta l'aria della coppia di omosessuali (ma magari mi sbaglio, eh). Comunque sia, 'sti due gironzolano avanti e indietro il monumento per un po'. Poi si decidono. Uno - quello con la macchina fotografica - si allontana e va a prendere posizione per l'inquadratura. L'altro si mette in posa sotto il monumento. Quindi mentre il primo comincia ad allineare l'obiettivo della digitale per lo scatto, l'altro fa una risatina, si volta di culo e mima di tirarsi giù i calzoni (giuro, non me lo sto inventando). Quindi si rigira per essere immortalato, ancora più divertito.
Finalmente riesco a farla, 'sta fotografia, dopodiché mi allontano. Lo sgradevole retrogusto di prima ha finalmente trovato una connotazione precisa nel momento in cui mi viene da domandarmi se questi due, ma anche coloro che ormai in parecchi vedo intorno a me, si rendono davvero conto di quello che è successo qui, su questa medesima terra che i nostri piedi stanno calpestando. Se percepiscono il dolore che ha attraversato questo luogo. Non un dolore qualsiasi, ma un dolore che un uomo ha inflitto a un altro uomo con l'animo di chi si diletta in una nuova raccapricciante disciplina sportiva. O se invece costoro guardano le fotografie di umanità violata e leggono le testimonianze di gratuita sofferenza con lo stesso animo con cui si piazzano davanti a un film con Christian De Sica o - per essere più internazionali - a una puntata di Desperate Housewives. Ci troviamo forse davanti a un pericoloso processo globale di fictionizzazione delle coscienze?
Esco riflettendo che non si va a Dachau per fare del turismo. Non si va a Dachau per giocare a nascondino. Non si va a Dachau per mettersi in posa. Del resto a Dachau mica ti vendono le palline di vetro che se le capovolgi, sulla piccola schiera di baracche vedi scendere la neve. Ma forse è solo perché nessuno ha ancora pensato di farle con la cenere.
/continua

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