Ciclicamente il mondo capitalistico conosce un periodo di crisi ovvero di ristrutturazione. Queste convulsioni del sistema sono sempre estremamente dolorose e da sempre il cinema ha provato a raccontarne le conseguenze umane. Ovviamente con una molteplicità di sguardi tra loro diversi. Tenuto conto che stiamo parlando dall’interno di una straordinaria crisi causata dalla finanziarizzazione dell’economia, può essere interessante ripercorrere le diverse narrazioni che il cinema ha proposto di questi eventi. La parola crisi richiama istantaneamente alla mente quella colossale del ’29.
Per descrivere una crisi senza iniezioni forzate di ottimismo il cinema statunitense ha dovuto attendere un documentarista come Michael Moore che ha svelato gli albori dell’attuale crisi finanziaria nel suo Capitalism: a love story (2009), senza infingimenti e provando ad andare a fondo nella ricerca delle cause. Qualche critico ha addirittura affermato che nel ’29 la salvezza dalla crisi per gli USA venne proprio dal suo cinema ottimista, esattamente come la rovina della Germania derivò dal suo cinema più crudo e realista. Questa tesi appare esorbitante e sembra più verosimile ritenere che la seconda guerra mondiale sia stata lo sbocco che il capitalismo mondiale, nel suo insieme, dette alle contraddizioni del ’29.
Il cinema italiano riesce a mantenere una tradizione di denuncia politica anche durante la crisi industriale dei primi anni ’70, che prendeva l’avvio dall’autonomizzazione dei paesi arabi e il conseguente aumento del prezzo del petrolio e che in Italia fu caratterizzata da politiche di austerity e di emigrazione. Lo stile narrativo di quegli anni aveva abbandonato la drammaturgia realista per una che faceva posto anche ai toni brillanti e comici. Ne sono testimonianza film come La classe operaia va in paradiso (1972) di Elio Petri e ancor di più Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola o Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati. Il film di Petri a Straub parve allora addirittura reazionario, ma era semplicemente non burocraticamente dogmatico e il suo potenziale di denuncia contro l’alienazione del lavoro è ancora attuale.
Con la caduta del muro di Berlino il Capitale entra in una fase di velocissima globalizzazione. Il vorticoso aumento di mobilità di mano d’opera, merci ed insediamenti industriali dà inizio ad una nuova ristrutturazione che dal 2006 vede un aggravamento a causa dello scoppio delle bolle speculative. Questa crisi in occidente ha avuto come più evidente conseguenza il forte aumento della disoccupazione, la riduzione del costo del lavoro e la precarizzazione delle sue forme. A questo tornante della storia la cinematografia italiana arriva con poca forza espressiva. Basti pensare ad un autore molto popolare come Paolo Virzì che ha spesso dedicato attenzione ai giovani ed anche al modo in cui sopportano la crisi, come nel film Tutta la vita davanti (2008), in cui, tuttavia, non è riuscito ad indagare le cause della precarietà, ed ha preferito limitarsi ad un tratteggio bozzettistico delle figure sociali. Utilizzando la crisi come sfondo brillante si finisce per realizzare film che, anziché denunciare, rischiano di rappresentare le condizioni di iniquità affrontate come acquisite: è ciò che accade in modo ancora più evidente in Generazione mille euro (2009) di Massimo Venier.
Vi sono anche autori italiani che in questi anni hanno affrontato le tematiche della crisi con attenzione politica, ma senza riuscire a trovare una visuale matura, è il caso, ad esempio, di Wilma Labate, che si è occupata del problema della FIAT dell’inizio degli anni ’80 con Signorinaeffe (2007), in cui sono correttamente evidenziate le appartenenze di classe; o anche quello di Francesca Comencini che in Mi piace lavorare (2003) tratta il tema del mobbing in un’azienda che si ristruttura a causa di una fusione internazionale. Questi due film rappresentano due estremi della narrazione cinematografica italiana: il primo elimina gli aspetti più tragici, che pure sono insiti nel tema, a favore di toni melodrammatici, e il secondo li accentua fino a rischiare il didascalico.
Pasquale D’Aiello