Carlo Lizzani
Difficile commentare la scomparsa di Carlo Lizzani, avvenuta sabato scorso, 5 ottobre, non tanto per come si sia verificata, un salto nel vuoto dal terzo piano del suo appartamento a Roma Prati con cui ha deciso di porre fine alla sua esistenza, una scelta semplicemente da rispettare, ma perché commozione e dolore rischiano di far naufragare nella retorica il ricordo di una importante personalità del nostro panorama culturale. Ci lascia infatti un lucido intellettuale che ha offerto, attraverso le sue molteplici attività (critico cinematografico, sceneggiatore, regista) e le opere cui ha dato vita, un affresco del “secolo breve” piuttosto acuto e ben delineato nei tratti essenziali. Lizzani definiva il cinema “un’arte di fatti e di uomini” e così i suoi film traevano ispirazione formale dal primo Neorealismo, ma riuscivano a delineare nell’integrazione tra cronaca e denuncia una precisa storicizzazione, alla ricerca di una verità che fosse il più oggettiva possibile.
Al riguardo sarà fondamentale l’incontro con Giuseppe De Santis, con il quale collaborerà per le sceneggiature di film come Caccia tragica,’47, Riso amaro, ’49 e Non c’è pace tra gli ulivi, ’50, senza dimenticare l’apporto relativo allo script e in qualità di aiuto regista per il capolavoro di Roberto Rossellini, Germania anno zero, ’48 (Pardo d’Oro al Festival di Locarno per la miglior sceneggiatura originale, autori, oltre a Lizzani e Rossellini, Sergio Amidei e Max Colpet). Spinto tanto dalle istanze neorealiste, quanto dal desiderio di servirsi del mezzo cinematografico per raccontare il nostro paese alle prese col dopoguerra, fra tradizione e mutamenti di costume ormai prossimi, Lizzani debutta come regista girando alcuni documentari (Viaggio al sud e Via Emilia km 147, ’49, Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato, ’50) e diede vita al suo primo film di finzione nel ’51, Achtung! Banditi!.
Lizzani realizzò un film ancora scomposto nelle varie parti, ma iniziò a delineare il percorso che avrebbe seguito nei lavori successivi: senso di spontaneità e scorrevolezza lungo l’iter narrativo, capacità di condensare il senso dello spettacolo e l’azione nell’ideologia, anche a costo di dare minore risalto alla psicologia dei personaggi e all’atmosfera complessiva.
Ugo Tognazzi ne “La vita agra”
La sua produzione, oltre sessanta film, certamente eterogenea ma discontinua nei risultati, è stata sempre caratterizzata da una vitalità esploratrice unita ad una estrema curiosità, che lo ha portato negli anni ad abbracciare vari generi, senza comunque mutare dall’ispirazione originaria, un viaggio fra realtà e memoria storica, coerenza e metodo storiografico. Dopo aver girato l’episodio L’amore che si paga (uno dei sei di cui è composto il film L’amore in città, ’53, che vide coinvolti Antonioni, Fellini, Risi, Lattuada, Maselli e Zavattini), Lizzani ottenne a Cannes il Prix International per Cronache di poveri amanti, dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, pellicola in cui inizia a prestare una certa attenzione anche ai personaggi secondari. In seguito con film come Lo svitato, ’56, Esterina, ’59, Il carabiniere a cavallo, ’61, tentò la strada della commedia (protagonisti rispettivamente Dario Fo, Carla Gravina e Nino Manfredi), potenzialmente ma non ancora concretamente nelle sue corde, in sospensione fra rodati cliché e voglia d’apportarvi qualcosa di nuovo.
Riuscirà nell’intento con La vita agra, ’64, dal romanzo di Luciano Bianciardi, dove, nella tradizione della migliore commedia all’italiana ed avvalendosi della riuscita interpretazione di Ugo Tognazzi, ha offerto una concreta mediazione fra denuncia sociale ed i toni insieme amari e disillusi della satira (alla sceneggiatura, oltre al regista parteciparono Luciano Vincenzoni e Amidei). Prima di questo film, fedele a quella linea storica ed insieme percorso di memoria che iniziava nel periodo fascista e trovava il suo culmine nella Resistenza, Lizzani aveva portato sullo schermo storie particolarmente coinvolgenti con Il gobbo (‘60), L’oro di Roma (‘61) e Il processo di Verona (‘63), un filo d’Arianna che condurrà negli anni a Mussolini ultimo atto (‘74) e Hotel Meina ( 2007).
Un intellettuale completo, riprendendo quanto scritto ad inizio articolo (da ricordare la sua collaborazione con la televisione pubblica e la scrittura di testi come Storia del cinema italiano, ’61 e ’79), capace d’esprimere le proprie idee, nella vita come sullo schermo, sempre con coerenza ed eleganza, forte di un’indubbia conoscenza storica- cinematografica e della consapevolezza di come gli errori durante l’umano cammino possano portare spesso all’acquisizione di nuove realtà ed inedite conoscenze, arricchendo e diversificando la varietà delle proposte. Inutile dire che ci mancherà. Mancherà a quanti hanno ne apprezzato la sua figura, i suoi lavori, e a quest’Italia persa nei rivoli di un personalismo spicciolo, che ha dimenticato troppo in fretta la sua valenza storica e culturale.