Gianfranco Rosi
Il 2013 cinematografico ha visto il cinema italiano concentrato ancora una volta sulla commedia, con qualche tentativo volto a diversificare l’offerta, puntando finalmente su più generi, accompagnato da segnali importanti. Mi riferisco tanto al Leone d’Oro conseguito da Gianfranco Rosi per il suo Sacro Gra alla 70ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia quanto al Marc’Aurelio d’Oro assegnato ad Alberto Fasulo (Tir) all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Rappresentano infatti il segnale di una tendenza, ancora non del tutto definitiva, volta ad annullare la distanza, in fondo ideologica, fra il documentario e il “film di finzione”, ed evidenziano inoltre quanto sia necessario al nostro cinema riscoprire gusto ed intuito per una “sana” sperimentazione e porre attenzione al reale con uno sguardo finalmente inedito e non standardizzato, che possa stimolare il pubblico più che assecondarlo.
Resta da sciogliere il nodo della distribuzione, non sempre particolarmente coraggiosa nei confronti di determinate realizzazioni, preferendo, fatte le dovute eccezioni, puntare per lo più su fenomeni di risonanza mediatica, in nome dell’incasso garantito. Pensiamo a Salvo, il film diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, vincitore de La Seimane de la Critique al 66mo Festival di Cannes, la cui uscita in sala era stata inizialmente garantita in Francia ma non in Italia, ponendovi infine “salvifico” rimedio.
Alberto Fasulo
Anche il cinema d’autore ha dato qualche segno d’inedita vitalità, riuscendo spesso ad abbandonare rigidi schemi rappresentativi, fra accademismo e virtuosismi fini a se stessi, per rinnovarsi con intelligenza ed intuitivo spirito d’adattamento, così da andare incontro alle diverse esigenze fruitive di un pubblico sempre più eterogeneo. Sono state quindi messe in scena delle opere diseguali nella loro resa complessiva e forse non del tutto all’altezza di precedenti realizzazioni, ma comunque capaci di offrire un respiro più ampio, valide anche al di là dei nostri confini. E’ il caso de La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, in cui appaiono evidenti sia caratteristiche proprie dell’autore, come la composizione fluida delle immagini, una narrazione vivida e il piacere del racconto, sia la volontà di riscoprire i generi cinematografici ed esplorare diverse modalità nella loro caratterizzazione complessiva, dal melodramma al thriller, offrendo alla pellicola una connotazione ed una validità complessiva di stampo europeo.
E’ quanto si può riscontrare anche in Educazione Siberiana, adattamento dell’omonimo romanzo di Nicolai Linin (2009, Einaudi Editore) messo in atto da Gabriele Salvatores insieme agli sceneggiatori Guido Rulli e Stefano Petraglia.
Uno stile dichiaratamente antirealistico, che si alimenta anche di imperfezioni e discontinuità, ma che può fare affidamento sull’abilità di un regista che non ha mai smesso di sperimentare ed innovare, a costo di lasciare spiazzati ad ogni nuova realizzazione.
Difficile non parlare di Paolo Sorrentino e del suo La grande bellezza, in corsa per gli Oscar 2014 come Miglior Film Straniero, scritto insieme a Umberto Contarello. Sin dalla sua presentazione, in concorso, al 66mo Festival di Cannes, si è rivelato un film capace di sorprendere e spiazzare e, a parere di chi scrive, destinato a convivere, almeno sino alla definitiva consegna ai posteri (il tempo può essere galantuomo, anche in campo cinematografico), tra estimatori e detrattori a contendersi il campo in eguale misura.
Rappresenta l’ulteriore affermazione di un autore capace d’imprimere alle sue opere un notevole fascino a livello visivo, grazie ad immagini felicemente intarsiate (un plauso alla fotografia di Luca Bigazzi) nella loro sfrontata scomposizione giocata sull’alternanza fra carrellate e primi piani di persone, luoghi, oggetti, unite da una valida colonna sonora (Lele Marchitelli), a sua volta capace di disinvolti e stranianti voli pindarici.
Il male infatti, almeno a mio parere, non sta certo nella commedia in sé, bensì nel’ambito delle sue modalità rappresentative, perse negli anni tra i rivoli di vacui richiami al passato, senza il coraggio d’esprimere, pur nel rimando, un’identità ben precisa al di là del facile, ed ovvio, intrattenimento generalizzato. E’ quanto avvenuto con Aspirante vedovo, diretto da Massimo Venier, incapace di rielaborare idee già valide di per sé, e il suo scenario in apparenza reale, la crisi economica, ma finto nella ricostruzione alla bisogna, ovvero fornire spunto alle interpretazioni di Fabio De Luigi e Luciana Littizzetto. Altro esempio eclatante al riguardo, Indovina chi viene a Natale?, regia e sceneggiatura (insieme a Fabio Bonifacci e Marco Mantani) di Fausto Brizzi, il cui consueto melange fra toni ironici e sentimentali da un po’ di tempo a questa parte sembra aver smarrito la bussola di un’originale modalità rappresentativa, adeguandosi, pronto cassa, ai suddetti stilemi del facile intrattenimento. Si continua quindi a dare vita a film che insistono a puntare sulla subitaneità dell’effetto comico (Il principe abusivo, Alessandro Siani), del facile coinvolgimento, con l’inconsistenza programmatica spesso mascherata da accomodante satira di costume (Benvenuto Presidente, Riccardo Milani).
Fra quanto ho potuto visionare quest’anno, ho però riscontrato a volte qualcosa di differente, come una certa abilità nel mettere in scena commedie semplici, garbate, ironiche, legate sì alla realtà ma senza il pretesto di sbatterti in faccia la solita pseudo morale d’accatto, buona, nella sua generica autoassoluzione, per il consueto salotto televisivo. A ciò si aggiunge anche la valorizzazione delle interpretazioni attoriali, concedendo già in fase di scrittura un buon respiro espressivo, al di là del loro semplice uso come tramite per propinare gag e cliché standardizzati per ogni palato.
Al novero aggiungo volentieri Una piccola impresa meridionale, diretto da Rocco Papaleo, scritto insieme a Valter Lupo: un’opera fresca e sincera, distante da ideologie e preconcetti che si avvale di buone interpretazioni, improntate essenzialmente ad una naturalezza espressiva, che trae linfa vitale dalla forza congiunta delle buone idee e della gentilezza del tocco, non ancora propriamente autoriale, ma piacevolmente sospeso tra sarcasmo e disincanto.
Giovanni Veronesi
Si è rivelata una piacevole sorpresa anche L’ultima ruota del carro, regia di Giovanni Veronesi, che ha aperto l’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma: a mio parere rappresenta infatti una concreta e riuscita evoluzione dai consueti schemi bozzettistici, corredati da una messa in scena spesso sciatta e confusa fra ironia e toni sentimentali, propria di certe realizzazioni del regista toscano (penso in particolare ai sequel di Manuale d’amore), un distacco dovuto, credo, alla combinazione di due fattori.
In primo luogo, infatti, vi ha certo contribuito il materiale narrativo a disposizione, la vera storia di Ernesto Fioretti, attualmente autista di produzione, che in circa quarant’anni ha svolto vari mestieri ed è stato testimone di molteplici cambiamenti avvenuti in tale lasso di tempo nel nostro paese, il quale ha collaborato alla stesura della sceneggiatura, insieme a Veronesi, Ugo Chiti e Filippo Bologna.
Interessanti casi a parte sono rappresentati da Viva la libertà e La mafia uccide solo d’estate. Il primo, diretto da Roberto Andò sulla base del suo romanzo Il trono vuoto (Bompiani, 2012, vincitore del Premio Campiello Opera Prima), avvalendosi dell’apporto di Angelo Pasquini nella stesura della sceneggiatura, rappresenta infatti una realizzazione in certo qual modo insolita nell’ambito dell’attuale cinematografia italiana, riprendendo i contatti, più nella sostanza che nella forma, con quel cinema d’impegno civile (non necessariamente da connotarsi con l’aggettivo “politico”) proprio, fra gli altri, d’autori come Francesco Rosi o Elio Petri.
Pif
Andò non intende offrire alcuna soluzione, o maldestra giustificazione, alle varie storture del sistema, bensì, più semplicemente, e coerentemente, avvalorare la funzione del cinema di rappresentare una pagina della nostra storia recente, invitandoci ad aprire gli occhi su quanto non riusciamo o non vogliamo cogliere col nostro sguardo.
Un’evidente critica, e contestuale denuncia, del malessere della politica, di cui sottolinea la distanza dalla gente comune (il film è uscito alla vigilia delle ultime elezioni), fra toni allegorici e surreali propri di un apologo morale, cui non sono disgiunti interessanti risvolti psicoanalitici.
Riguardo La mafia uccide solo d’estate vi si rinviene eguale connotazione volta all’impegno civile, in pregevole combinazione con ironia e poesia.L’esordio come regista cinematografico di Pif (Pierfrancesco Diliberto), noto (e bravo) autore televisivo (Il testimone), già assistente alla regia per Franco Zeffirelli (Un tè con Mussolini, ’98) e Marco Tullio Giordana (I cento passi, ’99), costituisce, ad avviso chi scrive, uno dei migliori film italiani di questi ultimi anni, capace di fare la differenza tanto per coerenza di stile quanto per rispetto nei confronti del pubblico, visto il distacco rispetto ai sin troppo abituali schemi facilmente ridanciani, magari con in sovrappiù una location distante anni luce dal reale. Coadiuvato nella sceneggiatura da Michele Astori e Marco Mantani, Pif ha messo in scena una storia di formazione e conseguente presa di coscienza, dal retrogusto autobiografico e dalla forte valenza di messaggio universale contro ogni forma di sopruso e sopraffazione del libero agire umano, per un risultato finale sicuramente convincente, dai toni commoventi e aperti alla riflessione condivisa.
Un colorato (e colorito) patchwork, una coperta composta da più parti alla fine troppo corta nel tentativo di provare a conciliare comicità ruspante con spunti e toni più ponderati, destinato a restare, cinematograficamente parlando, fra “color che stan sospesi”. Le varie gag proprie della maschera zaloniana appaiono ora addomesticate nella loro estemporaneità, per essere inserite in una dimensione cinematografica più definita e compiuta.
Tentativo lodevole, che avrebbe però meritato una maggiore incisività dei personaggi secondari ed una loro effettiva interazione col protagonista (penso al ruolo di Ivano Marescotti nei due precedenti film), la cui comicità si ritrova presto col fiato corto ed evidenzia una sovrastimata capacità di mattatore.
Il divertimento, nel complesso, è assicurato, ma, almeno a livello di personale sensazione, rimane l’amaro in bocca per aver ancora una volta solo in parte centrato il bersaglio relativo a un nuovo modo, forse definitivo, di delineare la commedia italiana, ovvero riuscire a cogliere, in definitiva, la tendenza espressa dal grande pubblico di gradire un intrattenimento leggero, valido comunque ad illustrare elementi riconoscibili della nostra realtà, pur se volti al grottesco e in stile “buffetto sulla guancia”. Si è fatto affidamento sulla facile tesaurizzazione dei passati lavori, in nome di preventivati incassi alle stelle, come è puntualmente accaduto, ma non sempre potrà essere sufficiente uno Zalone a far primavera.