Il cinema secondo Vinicius de Moraes e il signore che faceva “ciao”

Creato il 14 settembre 2011 da Sulromanzo

Tra fiere del libro primaverili e bancarelle estive dell’usato, si scoprono titoli che il ciclo inesorabile degli scaffali di libreria fagocita in poche settimane. A me sono capitate, fra l’altro, due anomale letture cinefile, da affiancare alla recente uscita di alcuni soggetti cinematografici scritti da Fernando Pessoa e finora rimasti più o meno inediti. Ma su questo bisognerà tornarci più in là.
La prima lettura è una raccolta di recensioni di Vinicius de Moraes. Il poeta brasiliano che, se non lo trovate in libreria (Mondadori gli ha dedicato un oscar attualmente fuori commercio), troverete senz’altro in un buon negozio di dischi (la sua poesia gira il mondo sulle ali della musica di António Carlos Jobim, Baden Powell e Toquinho), scrisse di cinema per diversi giornali dal 1941 al 1953. In Portogallo quelle recensioni, che in Italia sarebbero una chicca per aficionados in un catalogo come quello di Lindau, per esempio, sono state raccolte in una collana che la testata, nel frattempo scomparsa, «O Independente», aveva dedicato agli interventi giornalistici di scrittori famosi, riesumando preziosissimi scritti sparsi, oggi ripiombati nell’oblìo o, appunto, nelle bancarelle di cui sopra.
Le recensioni di Vinicius, che prima a Rio e poi a Los Angeles, dove si trasferì agli inizi della sua carriera diplomatica, conobbe attori e registi famosi (“Ieri ho presentato il cittadino Kane a Giovanna D’Arco”, dirà a proposito di un incontro fra Orson Welles e Renée Falconetti) oscillano tra una solida, a volte granitica base non solo estetica, ma anche etico-politica, e il gusto per la nota di costume, la battuta pronta, il commento estemporaneo e temperamentale, la scrittura affabile e incline alla digressione. Da una parte abbiamo dunque la difesa del cinema muto sul sonoro, o del cinema europeo e antifascista sulle degenerazioni dello star system hollywoodiano, di cui era ormai stufo quando nell’Italia post-autarchica lo si cominciava a scoprire; dall’altra c’è la capacità, molto vicina al nostro gusto, di cogliere una sequenza poetica nel film più datato o commerciale, o il piacere di certe descrizioni dal vero del “suburbio più famoso del mondo”, come definisce Hollywood, “bosco sacro” dove “i toast saltano spontaneamente fuori dal tostapane” (e non aveva visto Pulp Fiction). Le digressioni sfociano in libere divagazioni quando, parlando di un film di Sam Wood, parte per la tangente e nelle ultime righe deve ammettere che non c’è più spazio per scrivere l’articolo promesso nel titolo. Sarà per un’altra volta.
Il secondo libro in questione è la versione cartacea di un blog che segnalo a chi può/vuole cimentarsi con il portoghese. Fino a novembre dell’anno scorso, quando è morto quasi ottantenne, un signore dalla gabardina grigia e sciarpa e capelli bianchi, a una certa ora della sera, su un viale tra i più trafficati di Lisbona (ignoto ai turisti habitué del tram 28), si appostava accennando un discreto sorriso e cominciava a salutare tutte le macchine sfreccianti chissaddove. Era conosciuto come “o senhor do adeus”, il signore che fa “ciao”. Per molti, solo un pacifico squilibrato; per altri, un uomo all’antica, capace di separare la semplicità dalla banalità. Per anni, con due giovani amici, Tiago Carvalho e Filipe Melo (originalissima figura di pianista-fumettista-regista-produttore-indipendente), quel signore è andato al cinema ogni santa domenica, rilasciando alla fine le dichiarazioni che hanno dato vita al blog.
“Se a uno piacciono i film di cazzotti ne uscirà soddisfatto. Io, se non fosse stato per il rumore che facevano, mi sarei addormentato” (“I mercenari”, di Sylvester Stallone).
“Nell’antica Grecia l’omosessualità era una cosa comune e normale. Poi non so che è successo, è diventata un po’ tabù” (“Mine vaganti”, di Ozpetek).
“Mi dispiace parlar male di un film, ma non posso parlarne bene perché è completamente assurdo. Non so com’è che Brad Pitt abbia speso dei soldi per produrre ‘sta cosa. Ho letto in una di queste riviste che lui e Angelina Jolie adesso hanno ‘sta mania” (“Un amore all’improvviso”, di Robert Schwentke).
“Mi è piaciuto molto. Ho riso un sacco, ma non lo considero una commedia. Sono stato giovane anch’io e ora sono vecchio e quindi riconosco i pro e i contro dell’arrivare a quest’età” (“Basta che funzioni”, di Woody Allen).
Non è snobismo affermare che alcune di queste recensioni orali non sfigurerebbero accanto a quelle di un critico professionista. João Manuel Serra (si chiamava così), oltre all’onestà del recensore per caso, aveva lo sguardo superficiale che manca a certi speleologi del senso recondito; una specie di Alberto Caeiro (noto “padre spirituale” dei grandi eteronimi di Pessoa) della critica cinematografica. Sapeva guardare le immagini, ma anche la sala, l’ambiente, il dentro e il fuori. E sapeva riflettere sulla propria condizione di spettatore, spesso irretito nell’ingranaggio emozionale del film: “Questo lo raccomando a chi vive i film come li vivo io, molto intensamente. Quelli che vanno al cinema e non vivono il film, non amano veramente il cinema”; “È molto difficile dare un voto al film subito dopo averlo visto. In passato ho dato cinque stelline ad ‘Avatar’, oggi non gliene darei tante”.
In uno dei più interessanti articoli di Vinicius de Moraes, datato agosto 1942, il poeta ipotizza che l’interesse per il cinema segni il gap tra due generazioni contemporanee di intellettuali brasiliani: da una parte Graciliano Ramos o Carlos Drummond de Andrade, dall’altra se stesso con Murilo Mendes o Rachel de Queiroz. A un certo punto del XX secolo le cose andarono proprio così, non solo in Brasile. E oggi? La linea di confine sta nell’uso di internet, delle reti sociali e dei blog? I giovani amici hanno traghettato questo cinefilo all’antica, che nella sua ultima recensione parlava proprio di The Social Network: “È venuto un tipo molto simpatico al cinema a dirmi che ero su Facebook. Sono rimasto a bocca aperta... So che chiuque può apparire su Facebook, ma mi ci hanno messo e son contento”. Così il suo “adeus” non sarà per ora un addio.

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