Hisayasu Sato, questo sconosciuto. Eppure egli è, al di là di ogni ragionevole dubbio, uno dei cineasti più radicali della scena contemporanea. Sin dai suoi esordi, negli anni ottanta, ha esplorato le proprie visioni e ossessioni coniugando nella sua opera la sottocultura porno all’avanguardia. I suoi lavori (circa cinquanta film in meno di dieci anni, girati in condizioni di assoluto disagio produttivo) affrontano i temi del vuoto e dell’alienazione sociale attraverso la violenza e il fanatismo dei suoi antieroi. Un panorama delirante di maniaci stupratori che vivono in oscuri seminterrati o in cisterne vuote, di scolarette paranoiche separate dal mondo reale come uteri dal ventre, di burattini animati da un mondo virtuale di desideri distruttivi e follia. In una cornice di estremo concettualismo, Hisayasu Sato descrive uno scenario terminale: feticismo, perversione, nevrosi, omosessualità, voyeurismo, suicidio. Tanto è bastato per condannare il regista all’invisibilità e all’indifferenza, e, per contro, a una notevole fama sotterranea di artista maledetto, investito di un prestigio certo assai considerevole ma poco spendibile altrove.
L’etichetta di regista di genere ha pesato sfavorevolmente su Sato (benché proprio all’interno del cinema di genere egli sia diventato un autore), impedendo di coglierne l’inquietante singolarità. Nell’esiguità dei costi e dei rapidissimi tempi di produzione, a Sato è accaduto di dirigere film svogliati, pedestri o di riporto, tuttavia non mancando mai di manifestare una sua poetica concentrica e personale. Eppure Sato non è un manierista iterativo, un mistico dell’immagine, ma un autore che racconta una sua storia, anche se perversa, ossessiva e sovraccarica di immagini: proprio qui sorge lo sforzo di collocarlo nella storia del cinema, in quanto egli muove a rinnegare le stesse storie che mette in scena, a intralciarle o disfarle o ironizzare su di esse, rasentando duri contorni di sperimentalismo e avanguardia. Il principio poetico del cineasta è l’ossimoro, tanto più clamoroso se si considera che egli continua a fare cinema dal basso, bizzarro e solitario interprete postmoderno del suo tempo. Un altro ostacolo per gli storici e gli enciclopedisti è la sua poetica elusiva che si svolge per un perverso principio di contrasto dissociativo: dall’incertezza del sogno (con le esperienze allucinatorie della duplicazione meccanica della realtà attraverso il video) alla misantropia di chi tratteggia personaggi e caratteri come oggetti inanimati. Ma Sato è autore a pieno titolo in quanto accetta, pure nell’iperrealismo della sua messinscena, l’irrazionale e il discordante che permeano l’esperienza umana: egli non cerca spiegazioni alle cose, conclude i suoi film nell’inconcluso e intrica le sue vicende all’ineffabile. Le sue opere riescono ad essere creatori di miti e demistificatori: buon gusto e kitsch, raffinatezza e gravità, spreco ed economia: la loro modernità è nell’illusione della fine delle illusioni. Un elemento di assoluto rilievo nell’ideologia filmica di Sato – elemento che nessuno (nell’ordito delle diverse attestazioni critiche: dal sarcasmo liquidatorio dei saggisti d’accademia alla puerile sacralizzazione dei fanatici) ha computato all’analisi del suo lavoro – è il tema del grottesco come riconduzione irridente della surrealtà alla realtà quotidiana: la parodia.
Scrive Alberto Moravia: “La parodia è un’operazione anzitutto strettamente culturale. Essa non funziona, infatti, in presa diretta col reale; bensì nel rapporto con un’opera d’arte (in questo caso “un genere”, nda) che mira a svuotare con la contraffazione caricaturale. E’, insomma, un’operazione critica; che, però, ha per scopo non già la comprensione dell’opera ma la sua distruzione. (…) D’altra parte, tuttavia, bisogna riconoscere che la parodia non è soltanto distruzione di un’opera d’arte ma anche affermazione della personalità del distruttore. Personalità strana, però; anziché di critico che si accosta con rispetto e delicatezza a quel molto o poco di poetico che contiene l’opera; piuttosto di rivale geloso e competitivo che vorrebbe cancellarla con una sua opera analoga più alta e più bella e, non riuscendovi, in un impulso di frustrazione, si sforza, come abbiamo notato, di distruggerla”[1]. L’operazione critica di cui scrive Moravia, con lo scopo della distruzione dell’opera, è quanto fa Hisayasu Sato col suo cinema. Ma il lavoro del cineasta giapponese pone soprattutto le questioni radicali del senso della riduzione letterale delle immagini e del limite della rappresentazione come limite del visibile, annunciando in qualche modo la morte del cinema e la sua frenetica decomposizione attraverso un processo (doloroso e talora contorto) di metaforizzazione per eccesso di realtà. L’opera irritante e non concludente di Sato si pone dunque sotto il segno dell’ambiguità come intreccio delirante di alto e basso, e, soprattutto, come oscura premeditazione di un cinema bizzarro che infrange ogni norma corrente. Operarne una collocazione critica entro i presupposti del mero giudizio di valore, pure deposti i pregiudizi critici sul cinema di genere, che ne rubrichi una qualche appartenenza, appare a ogni modo fuorviante. Il cinema di Sato è un labirinto narrativamente surreale e figurativamente disturbato che comporta l’abdicazione grottesca alla sua stessa rappresentazione e al paradosso della crisi dell’identità sociale: la procrastinazione di un sogno (il cinema) che non è più, che “faccia impazzire gli spettatori, che li spinga a commettere un omicidio”[2].
Il cinema come entropia del reale
È fuori di dubbio che Hisayasu Sato tende a un cinema di spessore filosofico, indeterminato e postmoderno, assumendo i paradigmi mobili della fluttuazione di identità. Il cineasta giapponese, segnando la contaminazione fra verità del reale e realtà del virtuale, definisce un orizzonte ontologico incerto entro cui si collocano i livelli di irrealtà – o realtà virtuale[3] – che imitano, rendendola nulla, la vita reale. Il virtuale è lo statuto non autentico dell’esistenza come meramente rappresentata, la cui indeterminazione – nel senso di una ricapitolazione interpretativa di elementi archetipi – obbliga lo spettatore a costruzioni di senso che nello stesso tempo rendono insensata ogni pretesa di senso, sfuggendo alla determinazione dello specifico filmico. La riflessione sul corpo e sul suo rapporto con la mente riconduce a ulteriori suggestioni contemporanee sul tema della mutazione dell’individuo che fonda una dis-identità – attraverso protesi e appendici – sempre meno umana, mutante e multipla. Nel corpo del cinema di Sato, reversibile e di conseguenza risignificato, l’incerto destino anatomico diventa un’estrema forma di riflessione sulla materia ai confini fra organico e inorganico: in tal modo rischia la contaminazione come (in)autentica protesi biologica.
La meccanica dei corpi si realizza sul piano della sessualità come dimensione virtuale di una libertà ossessiva, metafora entropica del cinema e della sua assenza di limiti. Il cinema di Sato è questa metamorfosi della visione, questo sguardo alla deriva del reale (ininterrottamente compiuto dalla telecamera) che procura un’instabile percezione del mondo nella consistenza aleatoria di un immaginario ormai del tutto alterato. Sato riflette il cinema come un dispositivo di segni concettuali – tra diagnosi antropologica e prospettiva estetica – e come uno strumento di ermeneutica iconografica del luogo del consumo visuale, tra la fascinazione ipnotica della telecamera e l’interattività convulsamente paranoica dei suoi usi coattivi. Un cinema il cui contenuto essenziale è l’invadenza delle nuove tecnologie sul quotidiano (la videocamera e la sua immagine televisiva e anticinematografica), il feticismo biologico della tecnologia come esito di un’inedita interazione fra uomo e macchina, il potere trasfigurativo e magico del visuale esercitato nei luoghi oscuri del desiderio: insomma, l’indeterminazione ontologica dell’uomo contemporaneo nei confronti della natura polimorfa delle immagini artificialmente riprodotte e nell’uso ostentatamente privato del mezzo comunicativo, esautorato della sua obsoleta natura pubblica e sociale. Accade che i protagonisti del cinema di Sato siano agiti quasi esclusivamente dalle immagini, che trovino cioè una loro dimensione funzionale soltanto quando possono interagire con queste, quasi ad attestarne l’esistenza per l’esercizio di un medium che ne assimila il corpo all’immagine riprodotta, come se la sua presenza fosse prima visuale e poi reale. Il limite tra codice realistico e codice iconografico delocalizza la percezione dello sguardo alla sovrapposizione semiotica, creando quel cinema ibrido, in un modello referenzialmente magmatico e metalinguistico, su realtà ontologicamente differenziate che si ricostituiscono in quel sovvertimento della coscienza che Sato individua nell’archetipo di una sessualità reificata e riprodotta dalla videocamera a totale mortificazione del desiderio.
L’erotismo deviato di questo cinema è l’esito simbiotico della manipolazione artificiale tra organico e tecnologico, in un labirinto allucinato di carni martoriate e riti efferati che conducono alla costruzione di un universo fagocitato dal suo stesso nulla. La videocamera si sostituisce metonimicamente al fallo consumando un amplesso iterativo tra realtà e finzione, che, non giungendo mai alla propria fine, eccede fino alla schizofrenia: l’atto è la ripresa fenomenologica delle cose che genera, il luogo fatale di una straniante e ossessiva riproduzione meccanica. Hisayasu Sato opera una riconduzione biologica della tecnologia attraverso l’economia feticistica dei corpi come merci e delle merci come nuovi soggetti della storia umana, discepoli di quella mistica del consumo che ha nel culto dello spettacolo la sua ideologia. L’intuizione di Sato è nell’avere compreso che è direttamente la società, e in particolare quell’apparato sociale che è il sistema dei media, a produrre l’ibrido spaventoso tra uomo e macchina; e lo produce direttamente dalla sua quotidianità, dal suo funzionamento abituale, attraverso l’immagine come riproduzione contraffatta, morbosa e domestica, elemento costitutivo della nostra vita quotidiana ma al tempo stesso capace di attrarre pulsioni pervasive che alterano il mondo attorno a noi, annullando ogni confine tra l’esterno oggettivo, dato al di fuori degli uomini, e l’interno del vissuto psichico, delle fantasie sessuali[4] e delle pulsioni di morte, facendo sì che lo schermo diventi parte della struttura fisica del cervello e sia impossibile scorgere quale differenza vi sia tra immagine simulata e reale. Il cinema di Sato esplora l’effetto manipolatorio delle immagini video e il loro diretto impatto sulla mente, che, così manipolata, si produce in perverse allucinazioni e fantasie s/m, addomesticando il corpo e rendendolo condizionabile, in uno scenario tra violazione del corpo, impotenza e automutilazione.
Beniamino Biondi
[1] Alberto Moravia, Al cinema, Bompiani, Milano, 1975, pagg. 239.
[2] Dichiarazione di Hisayasu Sato.
[3] Numerosissime sono le opere letterarie (poi riprese da quelle cinematografiche o dalle serie televisive) che hanno descritto situazioni in cui i personaggi vengono in qualche modo catturati nella realtà virtuale, in particolare quelli del filone cyberpunk, a partire dai romanzi di William Gibson, nei quali è presente un ambiente totalmente virtuale chiamato cyberspazio o metaverso. Tra i primi ad utilizzare quest’idea è stato Daniel F. Galouye nel suo Simulacron-3 (1964) che è stato trasposto sul piccolo schermo in Germania ne Il mondo sul filo (Welt am Draht, 1973) di Rainer Werner Fassbinder. Più recentemente pellicole come Matrix (1999) e il meno noto, ma assai stimolante dal punto di vista artistico e filosofico, eXistenZ (1999) del regista canadese David Cronenberg.
[4] La fantasia sessuale preminente nel cinema di Sato è lo stupro. Idea sconcertante per un occidentale, essa è una componente tipica della sessualità del Giappone. Il sesso, che per definizione rappresenta uno spazio di libertà – vera o percepita – diviene il territorio in cui l’uomo giapponese si rifà delle frustrazioni della vita di tutti i giorni, in una società dove il controllo dell’individuo e la gerarchia sono i paradigmi quotidiani dell’esistenza. Presente in gran parte delle fantasie erotiche in forma sottile, la violenza è vissuta come valvola di sfogo: l’immaginario restituisce all’uomo giapponese quel potere che altrove non può esercitare. Le perversioni giapponesi sono spesso legate al rapporto tra uomo adulto e ragazzina, oggetto fetish per eccellenza se in più indossa una divisa da marinaretta, tipica delle scuole medie. Per cultura ed educazione, i maschi giapponesi sono eterni bambini: crescono nel timore delle donne adulte (madri che li sorvegliano e li spronano senza pietà a superare esami e ostacoli sociali). Paura annullata di fronte a un’adolescente, vista anche – nella migliore tradizione Shinto – come un essere ancora puro. La trasgressione è, appunto, violare questo candore ideale con la ricompensa del massimo di eccitazione erotica. Si pensi che in Giappone lo stupro è divenuto un’emergenza sociale a causa delle continue violenze perpetrate ai danni delle giovanissime soprattutto nel metrò, e che recentemente è stato posto in vendita – con lo sconcerto dei paesi occidentali – un allucinante gioco di simulazione intitolato RapeLay dove il protagonista deve stuprare la prima ragazza che incontra, una minorenne, le sue due sorelle e infine anche la madre. Si pensi ancora, in tema di feticismo, all’ultimissima tendenza della moda tra le ragazze, il Kegadoru, una sorta di feticismo legato alla sensualità dell’infortunio e consistente in una vera e propria corrente filosofica dell’estetismo .Il fascino delle bende, l’erotismo delle ferite nascoste, la castità che esprime una fasciatura bianca sulla testa sono quanto di più intrigante ci si possa oggi permettere in Giappone: cerotti e bende per occhi stanno così riempiendo i beauty-case delle teenager nipponiche. Infine, anche la passione degli uomini per le mutandine usate è dilagata a tal punto da rendere necessario l’intervento del governo che l’ha dichiarata fuorilegge producendo anche uno spot televisivo per debellare tale diffusissima pratica erotica. Hisayasu Sato ha anticipato e precorso, col suo cinema, persino le ossessioni più torbide dell’attuale realtà giapponese.