In questa prospettiva, si inserì il lavoro di John Ford, colui che più d’ogni altro s’identifica con il western di qualità, capace, in quasi cinquant’anni di dedizione al genere, di dare spessore artistico al western, con la cura fotografica, la struttura narrativa, l’umanizzazione dei personaggi. Capolavori non solo di genere, come Ombre rosse (1939), In nome di Dio (1948), Sentieri selvaggi (1956), L’uomo che uccise Liberty Valance (1962), consacrarono come monumenti della cinamatografia attori quali John Wayne e James Stewart. Sempre nel solco della tradizione che lui stesso andava tracciando, Ford sperimentò costantemente, alla ricerca dell’assoluta pulizia formale, nel bianco e nero come nel colore; ibridò il genere con meccanismi tipici della commedia, del thriller, del dramma. Sulla sua scia, nuove generazioni di registi già affermati (Fleming, Hawks, Lang, Vidor, De Mille) o in attesa di consacrazione (Hathaway, Sturges, Ray, Aldrich) diedero un apporto fondamentale alla nobilitazione estetica del genere, grazie alla collaborazione di talentuosi sceneggiatori, fotografi e musicisti. Il western si affermò in questo modo come veicolo privilegiato dell’arte cinematografica per la messa in scena dei grandi temi etici dell’umanità: la giustizia e l’arbitrio del più forte, l’avidità e la lotta per la sopravvivenza, la conquista della civiltà e l’autodeterminazione dei nativi americani.
La crisi degli anni ’50 portò a un tentativo di rinnovamento del genere, in particolare con l’opera di Sam Peckinpah (Sfida nell’alta sierra, 1961; Il mucchio selvaggio, 1965; Pat Garret e Billy the kid, 1973), nel segno di un lirismo violento e frenetico. Lo sdoganamento della critica europea, iniziato nel dopoguerra, preparò il terreno all’opera di Sergio Leone (La trilogia del dollaro, 1964-66; C’era una volta il west, 1968; Giù la testa, 1971), che sviluppò in chiave metaforica e introspettiva il genere, raggiungendo una sintesi osmotica tra film e musica, grazie alla collaborazione con Ennio Morricone. La strada aperta da Leone fu seguita da altri cineasti di rango come Damiani, Corbucci e Sollima, ma soprattutto fu occasione di sviluppo di una fiorente produzione di puro intrattenimento, a volte con esiti involontariamente parodistici. Negli ultimi decenni, più volte si è tentato di rivitalizzare il western, rivisitandolo in chiave revisionista con la denuncia del genocidio dei nativi americani (per la verità già suggerita dallo stesso Ford fin dai tempi del muto) o utilizzandone la potenza metaforica per affrontare tematiche contemporanee.
L’apertura del western a una molteplicità di chiavi interpretative e all’ibridazione dei generi, al pari della sua capacità di coinvolgimento del pubblico, ne ha fatto il terreno privilegiato per la produzione cinematografica, con lavori da annoverare tra i più alti dell’intera storia del cinema e altri infarciti di stereotipi e cliché. Per questo, il western è sintesi fedele e paradigmatica, nel bene e nel male, della natura caleidoscopica dell’arte e dello spettacolo cinematografico.