Ho sempre trovato la bugia un atto creativo, il pettegolezzo un’aberrazione. Ma ho imparato troppo tardi a non fidarmi di chi mi sussurrava segreti altrui all’orecchio, la logica non è mai stata il mio forte, la mia è stata troppo a lungo una visione soggettiva dell’esistenza, un misurare l’altro col mio stesso cuore, così come il passo, cui cerco sempre di star dietro, che sia di un bambino o di un vecchio. Le mie bugie sono diventate storie. Una volta compreso che la tridimensionalità è anche mentale, una volta vista l’altra faccia della medaglia e dei miei errori, ho cercato di scovare nei personaggi l’orrore e la meschinità di cui tutti siamo fatti. Eppure continua a sorprendermi il giro di parole che non arriva mai al punto. Frasi esatte che poi, magari a dieci anni da lì, scopro che volevano dire ben altro –peccato- penso –non poter registrare in diretta la propria vita e riascoltare le parole poi negate, fatti, interi episodi, che ognuno ricorda in modo diverso: Ti ho picchiata soltanto una volta, quella volta che ero ubriaco. No, è successo per anni. Mi hai picchiata ogni giorno della tua esistenza. Ognuno prende di sé la versione migliore. Perdiamo tempo a rimuovere le nostre nefandezze additando di continuo quelle degli altri.
Mi ritrovo a pensarci per giorni interi alla perfidia di certi, e ogni volta mi domando se anch’io so essere così crudele. Mi rispondo che sì, nessuno è perfetto e io per prima, che sto qui a giudicare. Ma un segreto è un segreto. Sicuro come la morte che puoi raccontarlo soltanto a te stessa. Per questo mi svelo mentendo. Perciò creo corpi e li seziono, abomini spaventosi che possano sorprendermi con la propria umanità più intima. C’è sempre una ragione per fare del male. In chiunque è nascosta la motivazione più comprensibile, che sia ignoranza o una vita in galera, un paio di genitori violenti, o una malformazione che ci ha reso storpi. Eppure la mancanza di franchezza continua a disturbarmi. Le vie traverse che troppo spesso prendiamo per non dire: non mi piaci, non ne ho voglia, non mi va, sono perdite di tempo. Ambiguità oscene che nulla hanno a che fare con una bugia divertente, con una festa a sorpresa che mi ha tenuta sveglia tutta la notte impedendomi di arrivare in tempo a un appuntamento. Oppure l’incontro con un clown, nel fitto di un bosco di montagna, un ventenne riccio e bruno dagli occhi ancora truccati dalla performance, e che nel piccolo circo faceva anche l’attrezzista. Un incontro (vero o presunto che importanza ha?) e che quel giorno m’impedì di arrivare a casa per cena, di chiamare papà e di mentirgli, di muovere un passo da quell’altalena e dal clown che mi teneva stretta, intrappolata tra baci profondi e “ti amo” sinceri, assurdi ma veri, impossibili ma fin troppo reali. Nessuno ci ha mai creduto a quell’amore iniziato a sole due ore dall’obbligatorio addio, a quel tizio così bello da sembrare una ragazza che, baciandomi nel buio del portone, si dichiarò mio per l’eternità.
Eppure queste sono le sole bugie che varrebbe la pena dire e ricordare. Non il pettegolezzo sulla presunta malattia di qualcuno che nemmeno conosco. Non le scuse che nascondono paure nemmeno tanto vere, un secondo fine grande e chiaro come la luna, una luna che è un sipario teatrale basculante nel buio e che guardo ogni notte, cullata da una fresca serata estiva e dall’altalena, fissata a una quercia secolare.