Il Clown

Da Bibolotty
Lì in montagna ci andavo tutte le estati costretta dagli esami di riparazione e da mio padre, che non vedevo quasi mai. Mi annoiavo nonostante le passeggiate, i miei sedici anni e il grande gruppo di amici che ritrovavo, cresciuti ogni anno un po’, al bar sotto il portico sulla piazza, l’unica. Mi annoiavo nonostante tra noi ragazze ci si scambiasse fidanzati, esperienze e ripetizioni di greco, nonostante avessi il permesso di restare fuori fino a mezzanotte, nonostante il cinema parrocchiale e le feste in piazza. Mi annoiavano le gite ad alta quota e le lunghe passeggiate in piano. Il gelato, ogni sera di un gusto diverso e il baretto fuori porta, dove un ragazzone biondo, gentile solo per  provarci, offriva boccali di birra a tutte. Così passavo molte ore in solitaria su un’altalena nascosta tra gli alberi, un vecchio e solido copertone messo lì non so quando né da chi, e che mi cullava per ore. Ci andavo dopo il pranzo generoso cucinato dalle mani esperte e creative di mio padre, quando tutto era silenzio e ogni cosa riposava, anche le campane della chiesa, l’unica, che dominava la Piazza. Andavo lì col mio diario e una radiolina per guardare il cielo muoversi sopra di me come un fondale teatrale malfermo, per sentire la resina sotto le dita e per piangere. Piangevo ciò che non sapevo, forse l’adolescenza, il corpo stretto in una mutazione iniziata da troppi anni e che ancora non finiva né sarebbe mai terminata. Piangevo un lieto fine che mi sembrava già irreale. Piangevo un rimpianto mai provato ma che vedevo nello sguardo degli adulti, la premonizione di una vita che sarebbe stata un gran bordello, piangevo tutte le morti che avrei pianto. Singhiozzavo per un po’ lasciando che l’aria asciugasse le mie guance ancora troppo piene, gli occhi sorpresi, spalancati sul mondo delle ambiguità, su quel “parlar dietro”, che origliavo dagli adulti seduti al grande tavolo dell’albergo, e mi faceva vergognare per loro e un po’ per me, per ciò che sarei diventata anch’io, forse.
Ho sempre trovato la bugia un atto creativo, il pettegolezzo un’aberrazione. Ma ho imparato troppo tardi a non fidarmi di chi mi sussurrava segreti altrui all’orecchio, la logica non è mai stata il mio forte, la mia è stata troppo a lungo una visione soggettiva dell’esistenza, un misurare l’altro col mio stesso cuore, così come il passo, cui cerco sempre di star dietro, che sia di un bambino o di un vecchio. Le mie bugie sono diventate storie. Una volta compreso che la tridimensionalità è anche mentale, una volta vista l’altra faccia della medaglia e dei miei errori, ho cercato di scovare nei personaggi l’orrore e la meschinità di cui tutti siamo fatti. Eppure continua a sorprendermi il giro di parole che non arriva mai al punto. Frasi esatte che poi, magari a dieci anni da lì, scopro che volevano dire ben altro –peccato- penso –non poter registrare in diretta la propria vita e riascoltare le parole poi negate, fatti, interi episodi, che ognuno ricorda in modo diverso: Ti ho picchiata soltanto una volta, quella volta che ero ubriaco. No, è successo per anni. Mi hai picchiata ogni giorno della tua esistenza. Ognuno prende di sé la versione migliore. Perdiamo tempo a rimuovere le nostre nefandezze additando di continuo quelle degli altri.
Mi ritrovo a pensarci per giorni interi alla perfidia di certi, e ogni volta mi domando se anch’io so essere così crudele. Mi rispondo che sì, nessuno è perfetto e io per prima, che sto qui a giudicare. Ma un segreto è un segreto. Sicuro come la morte che puoi raccontarlo soltanto a te stessa. Per questo mi svelo mentendo. Perciò creo corpi e li seziono, abomini spaventosi che possano sorprendermi con la propria umanità più intima. C’è sempre una ragione per fare del male. In chiunque è nascosta la motivazione più comprensibile, che sia ignoranza o una vita in galera, un paio di genitori violenti, o una malformazione che ci ha reso storpi. Eppure la mancanza di franchezza continua a disturbarmi. Le vie traverse che troppo spesso prendiamo per non dire: non mi piaci, non ne ho voglia, non mi va, sono perdite di tempo. Ambiguità oscene che nulla hanno a che fare con una bugia divertente, con una festa a sorpresa che mi ha tenuta sveglia tutta la notte impedendomi di arrivare in tempo a un appuntamento. Oppure l’incontro con un clown, nel fitto di un bosco di montagna, un ventenne riccio e bruno dagli occhi ancora truccati dalla performance, e che nel piccolo circo faceva anche l’attrezzista. Un incontro (vero o presunto che importanza ha?) e che quel giorno m’impedì di arrivare a casa per cena, di chiamare papà e di mentirgli, di muovere un passo da quell’altalena e dal clown che mi teneva stretta, intrappolata tra baci profondi e “ti amo” sinceri, assurdi ma veri, impossibili ma fin troppo reali. Nessuno ci ha mai creduto a quell’amore iniziato a sole due ore dall’obbligatorio addio, a quel tizio così bello da sembrare una ragazza che, baciandomi nel buio del portone, si dichiarò mio per l’eternità.
Eppure queste sono le sole bugie che varrebbe la pena dire e ricordare. Non il pettegolezzo sulla presunta malattia di qualcuno che nemmeno conosco. Non le scuse che nascondono paure nemmeno tanto vere, un secondo fine grande e chiaro come la luna, una luna che è un sipario teatrale basculante nel buio e che guardo ogni notte, cullata da una fresca serata estiva e dall’altalena, fissata a una quercia secolare.

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