Il Comité Cerezo in Mesico: intervista su diritti umani, narcoguerra e desaparecidos

Creato il 24 ottobre 2013 da Vfabris @FabrizioLorusso

[Questa è un’intervista all’attivista e difensore dei diritti umani messicano Alejandro Cerezo. I fratelli Cerezo, Alejandro, Héctor e Antonio, sono stati prigionieri politici. Nel 2001 furono catturati, torturati e condannati a vari anni di prigione. I loro familiari e sostenitori fondarono un Comitato per la loro liberazione che oggi mantiene il loro nome e si occupa della difesa dei diritti umani delle vittime della repressione politica in Messico. Abbiamo parlato della loro storia, dei desaparecidos, dei movimenti sociali, delle eredità e continuità della guerra al narcotraffico, della militarizzazione, delle recenti manifestazioni contro le riforme strutturali, provando anche a fare una diagnosi sulla situazione generale del Messico e del rispetto dei diritti in quel paese. Il dialogo è stato registrato il 17 ottobre 2013 presso la caffetteria del Comité Cerezo nella Facoltà di Filosofia e Lettere della Universidad Nacional Autónoma de México, F. L.]

 

Quali sono i precedenti del Comité Cerezo?

Non c’è un vero e proprio precedente, siamo un’organizzazione che sorge in seguito a un fatto specifico che è l’arresto dei tre fratelli Cerezo e altri accusati. In quel momento si uniscono le persone, si forma un gruppo grande che lotta per la nostra libertà fino a diventare il Comité Cerezo México.

Quanto tempo sei stato in galera?

Tre anni e mezzo, dall’agosto del 2001 al marzo 2005.

Con quale accusa?

Terrorismo, delinquenza organizzata, possesso di esplosivi, di armi d’uso esclusivo dell’esercito, danni alla proprietà altrui, più o meno queste.

E i tuoi fratelli?

Due di loro furono catturati, sono stati in carcere 7 anni e mezzo, e sono stati trasferiti in diversi istituti penitenziari lontani in momenti diversi: a Guadalajara, poi a Matamoros e infine nel Morelos. Da lì sono usciti, da un reclusorio o CeReSo (Centro di Riadattamento Sociale) normale.

E i coaccusati?

Erano Pablo Alvarado Flores e Sergio Galicia Max. Quest’ultimo esce con l’appello, dopo un anno e mezzo di prigione, soprattutto perché lavorava con la comunità ebrea della capitale e questa gli offrì degli avvocati buoni che non lo lasciarono solo legalmente. Pablo non aveva nemmeno un cane che lo aspettava a casa e abbiamo deciso di adottarlo come fratello, siccome stava nelle nostre stesse condizioni.

Quando è successo esattamente?

E’ stato durante il governo di Vicente Fox (2000-2006), l’arresto è stato il giorno 13 agosto, in seguito ad alcune esplosioni di piccoli petardi negli sportelli ATM di tre banche. Questo succede l’8 agosto e il 13 lo stato decide di fermarci e incolparci, non solo di quei fatti, ma di tutto quel che aveva fatto la guerriglia dal 1998 al 2001.

Parli dell’Esercito Popolare Rivoluzionario (EPR)?

Di tutti i gruppi in armi.

C’è un nesso con la vostra famiglia?

E’ quanto è venuto fuori a livello pubblico e storico sui giornali, quando i nostri genitori scrivevano lettere per mantenersi in contatto, siccome l’unico modo che avevano di farlo era  pubblicamente. Infatti, narrano che, dagli anni ’70, si dedicavano già all’attività politica e sociale e che, a un certo punto, hanno deciso di unirsi come militanti a quello che oggi conosciamo come EPR. Tutto ciò, più che altro, dipende da una lettera che loro hanno mandato spiegando un po’ la situazione.

Prima dell’arresto a cosa vi dedicavate?

Eravamo tutti studenti qui a Città del Messico, vivevamo in periferia, a Iztapalapa. Io sono andato via di casa a 16 anni e studiavo economia qui alla UNAM e sociologia alla UAM, quindi facevo lo studente a tempo pieno in pratica. I miei fratelli Antonio ed Héctor studiavano filosofia in questa facoltà e mia sorella Emiliana era psichiatra e mio fratello Francisco era a punto di finire la laurea in pedagogia.

Qual era la vostra attività politica in quegli anni?

In realtà non avevamo un’attività politica forte prima dell’arresto. I miei due fratelli avevano partecipato alle proteste del 1995 delle scuole superiori CCH (Colegios de Ciencias y Humanidades) e poi a quelle del 1997, che furono entrambe sconfitte. Io partecipai all’inizio dell’occupazione dell’università UNAM nel 1999.

Non avevate molta visibilità. Secondo te, quindi, perché se la prendono proprio con voi?

Ci sono varie ipotesi. Una è perché era come una lezione per tutti gli attivisti su quello che gli sarebbe successo se cominciavano a lottare. La nostra cattura ebbe un forte impatto, ci fu gente che si nascose o che se ne andò come conseguenza psicosociale dell’arresto. Un’altra cosa era generare paura contro il movimento studentesco affinché non si ristrutturasse. Ed era una lezione interessante per gli studenti perché noi non eravamo dei grandi attivisti, eravamo “gente normale”, per cui se alla gente normale può succedere ciò che è successo a noi, figurati ai militanti… Era un ragionamento. Dopo, col passare del tempo, durante il processo lo stato ha cominciato a far passare informazioni, presumibilmente di “intelligenza”, ai reporter e altre persone. Lo stato diceva in pratica che i nostri genitori sono membri dell’EPR e quindi anche noi. Quindi creavano una specie di organizzazione famigliare con zii, nonni, nipoti… Potrebbe essere un altro motivo nascosto, ma più che altro direi che s’è trattata di una vendetta di stato, come se dicessero “i tuoi non li ho potuti fottere ma te sì”.

Ma i vostri genitori non stavano più nella capitale?  

In realtà no. Da quando ho 16 anni vivo solo. I nostri genitori ci han sempre detto: “ va bene, ormai fumi, bevi e quindi vai a mantenerti coi tuoi vizi da una altra parte!”, affinché ci rendessimo indipendenti. Allora questo ci ha aperto una finestra per imparare dalla vita, ma c’ha anche lasciato un po’ così in un certo modo…

Quanta gente forma il Comité?

Pochi, circa 11, ma ci son molti collaboratori, tra 50 e 80. Cerchiamo di fare molti progetti e di organizzarci al meglio.

Dopo l’uscita di tutti i fratelli Cerezo nel 2009, il Comité continua a lavorare per i diritti umani e voi ricevete minacce anche di morte. Come ci convivete?

Molto depende da chi è minacciato e da come lo fanno. Nel nostro caso abbiamo imparato a vivere con le minacce come parte delle conseguenze dell’attività che svolgiamo e non si tratta solo delle minacce in sé, che sono state la cosa più significativa, soprattutto l’anno scorso, per esempio. Dipende molto anche dal vissuto di ciascuno, dai meccanismi per affrontare la situazione che abbiamo e dalla forza per farlo o no.

Parlami del vostro Rapporto pubblicato alla fine del 2012 sui Diritti Umani in Messico.

Un Rapporto è una raccolta dei fenomeni come gli omicidi extragiudiziari, le sparizioni forzate, la prigionia politica e le aggressioni subite da difensori dei diritti umani dall’aprile 2011 al maggio 2012, nella fase finale del governo di Calderón. Il seguente parte dal 2012 e arriva al 2013, all’inizio del governo di Peña Nieto. La situazione sta peggiorando, ci sono più attacchi. Nel Rapporto gennaio 2010-aprile 2011 abbiamo registrato 159 casi in 15 mesi, nel seguente sono 499 in anno le aggressioni a difensori di diritti umani che lo fanno in modo pacifico, definiti dalla ONU in questo modo.

Ci son stati cambiamenti col nuovo governo da fine 2012 secondo voi?

In realtà c’è una continuità della politica di sicurezza, ma c’è anche una politica con cui fan star zitti tutti i media. Se prima c’erano notizie di morti e decapitazioni ovunque, ora non è più così, ce ne sono altre e per esempio parlano delle larghe intese, del “Pacto por México” o d’altro. Questo assedio mediatico vuole tenere la gente tranquilla, ma ci sono zone, per esempio nello stato del Michoacán, in cui le mattanze sono terribili, ci si ammazza gli uni con gli altri. In questa strage continua, l’interesse economico che c’è si lega a megaprogetti che implicano lo spostamento di comunità intere dai propri territori. Quel che fa lo stato, soprattutto in questo governo di Peña Nieto, è principalmente ottenerlo con metodi giudiziari, ma senza smettere anche di farlo “extragiudizialmente”, facendo sparire le persone o minacciandole. E sì cambiano le tipologie: l’anno scorso il metodo di aggressione più riscontrato era la minaccia, nel 46% dei casi, mentre quest’anno scende la minaccia e aumenta l’avvicinamento diretto con aggressioni e provocazioni. Queste sono la maggioranza, quindi vuol dire che chi agisce ti vigila di più, ha più informazioni e dettagli su di te e che con questi ti attaccherà.

C’è una specie di strategia riguardante gli spostamenti più o meno forzati di persone che negli ultimi 6-7 anni hanno superato la cifra di 200mila?

Sì, in qualche modo. Si cerca un po’ di portare avanti i progetti economici di loro interesse. Abbiamo parlato di due casi l’anno scorso: uno a Ciudad Juárez, Chihuahua, nel Nord, e un altro nel Sud, a Oaxaca, dove volevano togliere la terra a una comunità. C’è un modello d’azione comune per cui tutti s’uniscono per un interesse, cioè esiste un beneficiario delle violazioni ai diritti umani. I beneficiari risultano essere imprese, per esempio, agricole o di energia alternativa. I rapporti di cui parlo sono nelle pagine Acudeeh-Acción Urgente para Defensores de Derechos Humanos (Link informes).

Parliamo della gran manifestazione del 2 di ottobre a Città del Messico, in commemorazione della strage di Tlatelolco del ’68, in cui ci sono stati oltre 100 arresti e scontri pesanti con la polizia. Voi avete pubblicato una lista dei detenuti molto completa che è stata riprodotta dai media principali.

La repressione del 2OTT è il risultato ormai di un modus operandi e di una strategia statale del Distretto Federale (Città del Messico) e della polizia federale (PF), un coordinamento di differenti corpi che includono la PF, la polizia giudiziaria, i granaderos e anche l’intelligenza militare e i militari stessi. Questo comincia con le proteste del primo dicembre 2012, poi il 10 giugno 2013, l’1S e il 2 ottobre. Anche il 13 settembre, giorno dello sgombero dell’accampamento degli insegnanti nella piazza centrale della capitale, anche se non era una manifestazione classica, si sono viste delle modalità particolari della repressione politica e nell’azione della polizia.

A quali modus operandi ti riferisci?

Uno è la cattura o la sparizione temporanea di studenti, presi su da camionette che passano, se li portano via, li prendono a botte, li rapinano e non li presentano mai alle autorità. Poi li scaricano da qualche parte. Non si sa esattamente che corpo di polizia stia realizzando queste operazioni, però ci sono indizi sul fatto che potrebbero essere i federali. Non ci sono prive perché i ragazzi presi nemmeno vengono interrogati. L’obiettivo è creare paura. Poi ci son sempre stati dei civili nelle camminate, dei poliziotti che sfilano in corteo e stanno lì, ma dal 1D 2012 si cominciano a vedere più provocatori, in borghese diciamo, che provocano le autorità, i granaderos, affinché rispondano e attacchino i ragazzi. Allora, non si deve fare confusione qui. Ci sono i provocatori così come c’è una parte della gente che decide che la sua manifestazione della protesta sarà violenta. Non li possiamo accusare o mettere insieme ai poliziotti perché quelli decidono di manifestare così, anche se sanno bene che commettono un delitto e che l’autorità può reagire. Ci sono altre modalità come la presenza di falsi giornalisti che si sa che sono informatori o agenti del CISEN, i servizi segreti, e si fanno passare per giornalisti, fanno foto ed è difficile identificarli a meno che tu non vada a varie manifestazioni e li riconosca. Poi c’è l’azione dei corpi antisommossa con questa tecnica che c’è da tempo ormai e consiste nell’incapsulare la gente e dopo picchiarla e fermarla. E prendono chi c’è lì vicino, a casaccio, ma non ai presunti gruppi violenti che esistono. E’ una modalità che va in aumento nella polizia della capitale da 3 o 4 anni, ma adesso gli stanno sciogliendo le briglie e gli ordinano di menare.

Che cosa ha fatto cambiare queste “modalità di azione”?

Bisogna considerare che questo tipo di comportamento è in sintonia col momento politico del paese. Viviamo ora in Messico un momento di crisi profonda, apertasi in tutto il mondo, con una serie di riforme che avranno un gran impatto sulla classe media, una serie di progetti eolici, uno scontento popolare molto forte, un aumento dei prezzi degli alimenti principali della dieta messicana come la tortilla e i fagioli, la minaccia di imporre l’IVA su medicine e alimenti, la riforma educativa. Insomma, c’è un fastidio generalizzato del popolo che ora sta manifestando un po’. Ciononostante bisogna essere sinceri. Sì è vero che ci sono le proteste dei docenti, ma c’è anche la solita classica Sezione XXII del sindacato che protesta, la stessa di sempre, e la XVIII s’è tirata fuori prima e così…

Però il risveglio c’è e si suppone che i professori in lotta della Coordinadora, la CNTE, sono differenti dal sindacato cooptato dal governo che è il SNTE.

Effettivamente c’è un risveglio, addirittura dentro lo stesso sindacato e in altri elementi che sono pro-governativi, ma che piano piano stanno capendo che verranno ridotti a zero dalla riforma educativa e vogliono a lottare per i loro diritti.

Dopo il 2 ottobre e l’aggressione della polizia contro oltre 80 giornalisti, avete lanciato un comunicato importante con altre 113 organizzazioni intitolato “Reprimere è un delitto, esprimersi è una libertà” C’è stata qualche risposta ufficiale alle vostre richieste di verifica dei fatti repressivi (LINK)?

La nostra reazione è stata decisa, non solo perché hanno picchiato i manifestanti, ma anche perché hanno aggredito i difensori dei diritti umani di una nota organizzazione, ilCentro Miguel Agustín Pro Juárez Ass.Civile. Hanno colpito i loro osservatori. La polizia ha picchiato anche una ottantina di giornalisti e, anche se non è uscita pubblicamente quest’informazione, sono stati picchiati anche tre osservatori della Commissione dei Diritti Umani di Città del Messico, quella statale! Insomma, se picchiano loro, c’è da aspettarti che picchino pure noi, o no? Non c’è lo stato di diritto, il rispetto delle leggi. C’è una violazione atroce del diritto alla protesta sociale. Questa campagna che viene da lontano e si riassume con la frase Reprimere è un delitto, esprimersi è una libertà denuncia un problema che c’è e c’era prima, anche se a volte esplode di più e altre volte si minimizza. Quel che ora fa lo stato sono dei quadri legali per sbatterti in prigione e giustificare il tuo arresto.

La strategia della narcoguerra (2006-2013-2013), la militarizzazione, i 100mila morti, l’Iniziativa Merida (aiuti statunitensi alla lotta messicana contro i narcos). Che cambiamenti ci sono al riguardo in questo nuovo period di governo (20012-2018)?

Continua. C’è una politica di continuità e perfezionamento delle politiche di Calderón e l’unica cosa che cambia ´il discorso mediatico. Si perfezionano i meccanismi e oggi chissà come si chiamerà, ma continua la strategia e si creano gruppi specializzati per agire o gruppi paramilitari, secondo la stessa logica.

Un’altra eredità della narcoguerra, una realtà in aumento, sono i desaparecidos, un tema importante anche per il Movimiento por la Paz con Justicia y Dignidad (MPJD) e il suo portavoce, il poeta Javier Sicilia. Il Comité Cerezo e il grupo Hasta Encontrarlos hanno pubblicato un manuale su cosa fare in caso di sparizioni forzate: Manual: “¿Qué hacer en caso de desaparición forzada?

Dopo la nscita del MPJD, a cui abbiamo partecipato all’inizio, abbiamo realizzato attività di formazione per la loro commissione di documentazione. Quindi abbiamo osservato in quel movimento e nelle varie manifestazioni che c’erano carenze nelle pratiche di documentazione, mancava l’abitudine, e ora più o meno va bene. Quando l’anno scorso è venuto il relatore dell’ONU del gruppo sui desaparecidos, s’è riunito con le organizzazioni e la maggior parte dei casi che restano e che lui riprende come sparizioni forzate sono quelli che abbiamo documentato nell’ambito della campagna nazionale contro la sparizione forzata. Molti altri non sono passati perché mancavano dati.

Che cosa?

Mancava una documentazione e una spiegazione su che ruolo aveva lo stato. Perché la sparizione forzata è solamente quando lo stato partecipa in modo diretto o indiretto, perché c’è una concezione molto radicata che crede che il crimine organizzato non ha niente a che vedere con lo stato, mentre questa è una menzogna. A volte lo stato stesso è la delinquenza organizzata.

In che senso? Cos’è un desaparecido?

Beh, come in tutte le violazioni ai diritti umani, chi commette la violazione per definizione può essere solo lo stato in tre modi: “commette” la violazione, per esempio quando ordina direttamente a un suo gruppo repressore di farlo, “omette”, quando non fa nulla pur conoscendo le coordinate del pericolo per gli osservatori dei diritti umani o i cittadini in generale, oppure tollera per “acquiescenza”, quando realizza le violazioni o le tollera quando queste partono da singole persone, da privati fuori dalle istituzioni. Quel che si comincia a vedere qui è che proprio questa ipotetica delinquenza organizzata realizza omicidi e sparizioni, ma risulta che, nella maggioranza dei casi, c’è sempre un posto di blocco dell’esercito prima del posto in cui avviene il sequestro e non lo vedono mai, quando succede e quando se ne vanno. Allora c’è una complicità? Chiaro. Ti lascio passare, tu fai quel che vuoi e poi torni a casa. Così noi sembriamo sempre di più la Colombia, dove la cosa veramente difficile era documentare questa vicinanza dello stato alle forze paramilitari, il che fu molto evidente là a un certo punto. Qui non arriviamo ancora a un grado tale di evidenza, ma ci arriveremo a quel grado di cinismo delle forze armate…

Como documentate le sparizioni?

Facendo un lavoro con le famiglie, riempiendo un modulo pre-mortem CICR (Comitato Internazionale Croce Rossaa), uno post-mortem, registrando i motivi, il contesto, eccetera. Tra i casi di osservatori di diritti umani, se non ricordo male, tra il 2010 e il 2011, circa 29 o 30 di quelli che abbiamo certificato si riferivano a desapariciones.

In tutto il Messico?

No, quell’anno abbiamo potuto raccogliere i dati di solo 15 stati su 32, ma nell’ultimo rapporto dell’agosto 2013 abbiamo documentato 19 stati. Infine ci sono 2 stati nei quali non si sa che sta succedendo.

Ome avete vinto il Premio per la Pace di Aquisgrana in Germania?

E’ un premio che dà la città di Aquisgrana e va, in qualche modo, a contrastare un altro premio di quella stessa città che è per personaggi di destra. Dunque il riconoscimento viene dato da una giuria di 300 sindacati e intellettuali. Mandi la tua iscrizione, partecipi e lì si vede. T’intervistano qui in Messico, se ne vanno e decidono. Lo abbiamo ricevuto nel settembre 2012, la giuria ha scelto il Comité Cerezo e la mia persona come vincitori. Quindi siamo stati Germania, abbiamo fatto un piccolo tour, siamo stati alla manifestazione per la pace e ok. E’ un premio alternativo, molto conosciuto in Germania e un po’ in Francia. E’ andata bene, ma la conseguenza di questo premio è che non mi fanno più volare sullo spazio aereo statunitense. Sono in una lista di chissà che…

Quando te ne sei accorto?

Beh, mi han fatto scendere da un aereo per l’Europa. Non ho il visto americano, ma il volo era diretto. Solo che passava per lo spazio aereo statunitense.

Qual era la compagnia aerea?

Una, Iberia e l’altra non me la ricordo. Era passato un mese dal premio e dovevo andare a un altro incontro nell’Unione Europea. E’ successo quando ero ormai dentro all’aereo, come in un gioco perverso, dopo avermi controllato il passaporto e le verifiche di sicurezza. Andava tutto bene, mi han detto di passare, mi son seduto al mio posto e mi han chiamato per aspettare un’autorizzazione. L’aereo si muove, sta sulla pista e all’improvviso aprono la porta e mi dicono di scendere.

Che autorità te l’ha imposto?

Gli Stati Uniti, la homeland security. Però in Messico, nessuno mi ha avvisato. Siamo stati all’ambasciata USA, abbiamo chiesto tutto e nel dipartimento della homeland securityabbiamo fatto tutto il possibile e quanto richiesto, mi hanno identificato, ma non è servito a niente. Lo abbiamo interpretato come una vendetta dello stato messicano per il premio ricevuto e perché io sono stato sempre qello che ha viaggiato di più all’estero per creare relazioni.

Como funziona il Comité dal punto di vista finanziario?

La sua base forte è la solidarietà della gente. Abbiamo un proverbio che dice che “la solidarietà con solidarietà si ripaga”. Che cos’è e come si manifesta? In tanti modi. Ci regalano vestiti, scarpe o la spesa, come organizzazione. Oppure ci regalano un sacco di riso e di fagioli, a volte fino a 70 kg che ci bastano per tutto l’anno! Tutto fa brodo. E poi c’è un’altra parte che ci sostiene quando questa solidarietà non basta e dobbiamo pagare cose in contanti. Quindi molti anni fa, abbiamo deciso di gestire una caffetteria come progetto economico che sostenesse il Comitato. Da quando sono uscito io, dal 2005, c’è questo spazio. Prima stavamo in un altro posto in cui si poteva ballare e organizzare concerti, lo spazio permetteva di tutto. Poi ci han mandato via e il collettivo che aveva questo spazio all’università, dove siamo ora, ci ha offerto di condividerlo. Siamo un’organizzazione piccola, ma la rete dei collaboratori è molto grande e ci permette di fare ciò che facciamo, cioè corsi, osservazione dei diritti umani, formazione, documenti, manuali, la Rivista Revuelta e le campagne di informazione e azione. Siamo tuti volontari, siamo un po’ della filosofia antica, direbbe la gente, per cui il compromesso è importante, è fondamentale lo stimolo morale e non quello economico. E c’è gente di ogni tipo, va detto. La caffetteria si chiama anche “macchina dell’umiltà” perché possiamo avere ruoli differenti tutti quanti, da chi fa il dottorato o è laureato. Fabrizio Lorusso – Carmilla - Twitter @FabrizioLorusso

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