IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Annalisa Di Salvatore (marzo 2014)

Creato il 12 marzo 2014 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Annalisa Di Salvatore

Annalisa Di Salvatore è abruzzese, insegnante di italiano per stranieri a Roma (di qui, di là, di su, di giù, con grande gioia dell’Agenzia del trasporto autoferrotranviario del Comune di Roma). Dopo troppi anni sciupati su volumi accademici di glottodidattica, legge raramente saggistica e solo sotto stretto controllo medico; per lei lettura significa romanzi e racconti, qualche volta poesia. Ha scritto racconti per Vicolo Cannery e Abbiamo Le Prove. Si sollazza col suo blog Tornasole.

annalisa.disalvatore@gmail.com
Twitter: @MorelleRouge

John Fante e Rudolph Borchert, Bravo, burro! (traduzione di Francesco Durante, illustrazioni di Marilyn Hirsh, Einaudi, 2010). Ho scelto di cominciare da John Fante per atto di devozione verso lo scrittore che, sì, lo dirò con quelle abusate parole melense: mi ha cambiato la vita. Ho letto tutti i suoi romanzi e quasi tutti i suoi racconti, ingozzandomene in un’estate di diversi anni fa – restano le sue sceneggiature, dove sono, dove le trovo?
Mi mancava questo libro, forse tra i meno conosciuti di John Fante – pare d’accordo il suo biografo Stephen Cooper (Una vita piena. Biografia di John Fante, traduzione di Francesca Giannetto e Ilaria Molineri, Marcos y Marcos, 2001).
Considerato “un’opera minore” (etichetta che mi ha sempre inquietato), Bravo, burro! è un libro scritto a quattro mani, nato dalla collaborazione con lo sceneggiatore Rudolph Borchert, insieme al quale Fante decise di riprendere un loro vecchio trattamento cinematografico (Black Mountain, 1965) e cavarne fuori un libro per ragazzi. Non appena l’ho ricevuto in regalo, l’ho accantonato per tre o quattro anni, lasciandolo intonso e perfino custodito nel suo pacchetto a me caro – mi piace dare e ricevere libri incartati in fogli di giornali, come si fa con le uova prese dal contadino, o nei sacchetti del pane. Stava lì, non lo guardavo, leggevo altro. Succede così quando ricompare un grande amore giovanile, mitizzato dal tempo, di cui si ha desiderio e timore di aggiornare l’immagine. Ho preso coraggio e ho cominciato a leggerlo da poco. Storia di un bambino e del suo burro («sì, insomma, un asinello»), il libro potrebbe a prima vista sembrare il meno fantiano di tutti. Ma attenzione: c’è presto di mezzo un padre, un padre vizioso, amante di alcolici, un padre determinante, un padre sanguigno, che dopo appena poche pagine compare granitico nei suoi abiti da manovale. È lui, mi sembra di riconoscerlo, lo Svevo Bandini che ho amato, il Nick Molise che ho adorato. Mi sento già a casa.

°Dal 2006 si tiene ogni agosto a Torricella Peligna (Chieti) il festival dedicato a John Fante, Il dio di mio padre. Ovunque tu viva, non sei un vero fantiano se non ci vai in pellegrinaggio almeno una volta nella vita. È il tuo doveroso “ajj”.

Grace Paley, Enormi cambiamenti all’ultimo momento (traduzione di Marisa Caramella, Einaudi eBook, 2010). Un piccolo gioiello che vado ancora rigirando tra le mani, scoperto per caso grazie a un amico di cui seguo con fiducia qualunque suggerimento di lettura. Un giorno mi ha detto che la mia scrittura somiglia a quella di Grace Paley. Io ho pensato, ma non gliel’ho detto subito: chi diavolo è Grace Paley? Sono corsa a leggerla e, dopo appena un paio di pagine, ho deciso che il mio amico aveva detto una bestialità: i racconti di Grace Paley sono inarrivabili e perfetti, possono somigliare solo ai racconti di Grace Paley. La quale non ha mai scritto un romanzo, ma solo racconti, e pure pochi. Meglio, non ha mai pubblicato un romanzo – chi può dire cosa ci fosse davvero tra le sue carte e le sue tentazioni, – ma la forma del racconto appare la sua misura, galleria compiuta di ritratti restituiti con scrittura minuta ed essenziale, potentissima: «Vidi il mio ex marito per la strada. Ero seduta sui gradini della nuova biblioteca. Ciao, vita mia, gli dissi. Il nostro matrimonio era durato ventisette anni, mi sentivo giustificata. Lui disse, Come? Quale vita? Non la mia. Io dissi, Ok. Non è mia abitudine discutere, quando le posizioni sono inconciliabili.» (incipit di Desideri). Quanto lavoro, mi chiedo, quanto lavoro ci sarà stato per montare una simile inquadratura, un dipanarsi di esistenza racchiuso nel giro di poche righe? E poi mi dico anche: è un peccato, è proprio un peccato che in Italia il racconto non goda, presso editori e lettori, della stessa benevolenza di cui gode il famigerato, acclamato, inneggiato romanzo.

John Cheever, Il nuotatore e altri racconti (traduzione di Marco Papi, Fandango, 2008). Col tempo mi è venuto un debole per i racconti, sì, avrei dovuto dirlo subito. Libricino riletto proprio di recente per un bisogno di ritrovare voci care, di racconti ne raccoglie tre, fra cui Il nuotatore, che ho amato.
In una ciondolante domenica d’estate, stravaccato e brillo ai bordi di una piscina a casa di amici, Neddy Merrill è visitato dal proposito di attraversare a nuoto la sua città, tuffandosi da una piscina all’altra di tutti i suoi vicini e conoscenti, per ritornare a casa sua. Lo fa. «Gli sembrava di vedere, con un occhio da cartografo, il dispiegarsi delle piscine, quel corso d’acqua quasi sotterraneo che si snodava attraverso la contea. Aveva fatto una scoperta, aveva dato un contributo alla geografia moderna, …» (p. 12). Di piscina in piscina, il tempo cambia, il cielo annuvola, promette una pioggia imprevista. Ce la farà Neddy Merrill a portare a termine la sua impresa? Me lo chiedo tutte le volte come la prima, finché compare sulla pagina scritta lo spazio di una riga vuota: da lì, il viaggio liquido di ritorno a casa comincia ad andare con bracciate diverse. La scrittura di Cheever è magistrale nel fregarci tutti, fate attenzione a questo abile manipolatore di storie.

Francesco Piccolo, La separazione del maschio (Einaudi, 2008). Letto, riletto, spaginato, annusato, saccheggiato, seviziato con decine di orecchie fatte agli angoli delle pagine e post-it attaccati a mo’ di segnalibro, sempre sul comodino o sulla scrivania per tornare a interrogarlo a mo’ di aruspice, per me è il miglior romanzo di Piccolo. Storia semplice, annunciata nel titolo, che comincia da tutta un’altra parte: al bar, davanti a un cappuccino, spruzzato di un cacao non richiesto dal cliente nella sua prima mattina da padre. Piccolo fa così, alla storia gli si mette di lato. La carnosità del libro, così, si palpa presto. Qui un assaggio: «Non ho mai dato in mano a nessuno il destino di una sola giornata – ma l’ho sempre affidato a più mani. Se mi innamoro, continuo ad amare e a scopare con altre. In questo modo, l’innamoramento è più sopportabile» (p. 172). È una lettura che, non saprei dire con chiarezza perché, mi capita di consigliare più spesso a donne che a uomini, insieme a quell’imponente capolavoro di Domenico Starnone che è l’Autobiografia erotica di Aristide Gambía (Einaudi, 2011). A gusto mio, due romanzi veri. Vero è quando l’autore non ingombra il lettore con la sua presenza di scrittore; quando si fa operaio, non direttore, nella fabbrica della sua storia; quando, nel suo osservare preciso e affilato, non ha alcuna pietà, nemmeno per sé stesso. Mi viene in mente quel che disse Faulkner in un’intervistadel1956, a proposito dell’essere scrittore: «He is completely amoral in that he will rob, borrow, beg, or steal from anybody and everybody to get the work done. [...] Everything goes by the board: honor, pride, decency, security, happiness, all, to get the book written. If a writer has to rob his mother, he will not hesitate». Ecco, leggere i due romanzi di Piccolo e Starnone a breve distanza l’uno dall’altro avvicinerà a questa irrinunciabile idea. Fortunatamente, ci sono – sì, anche oggi – scrittori italiani che sanno fare bene quel che diceva Faulkner. E loro non gli unici.

Salvatore Mannuzzu, La ragazza perduta (Einaudi eBook, 2011). Di questo autore avevo letto solo Snuff o l’arte di morire (Einaudi, 2013) e con quello avevo presto deciso che avrei cominciato a pedinarlo, andando a ritroso tra i suoi libri. Questo è il secondo che ho letto e non ho cambiato idea. È il ritorno di un racconto, Dedica, pubblicato nella raccolta La figlia perduta (Einaudi, 1992), che non ho avuto il piacere di scovare e leggere. Il ritorno doveva essere una «ripulitura veloce» per una nuova edizione, dice Mannuzzu, invece le cose sono andate diversamente: ripreso, ripensato, riscritto, La ragazza perduta, storia dell’amore tra un magistrato e una ragazza di appena diciassette anni, era elegia vent’anni prima, è tragedia ora: «Ora invece io protesto contro questa mia affermazione di allora. Oggi dico che dalla vita non si guarisce». C’è qualcosa nello stile levigato e sostenuto di Mannuzzu che fa pensare a stanze dai soffitti alti e arredate con mobili antichi, mi ricorda un po’ quello di Michele Mari. Può essere perché i due hanno in comune l’esperienza dell’urgenza di una riscrittura?

Louis-Ferdinand Céline, Morte a credito (traduzione di Giorgio Caproni, Garzanti, 2007). Lo sto leggendo da quando ho capito che per il momento – un momento che dura da qualche anno, – non ce l’avrei fatta a risolvere i miei conflitti con Proust, legame intermittente e tormentato. Con Céline credo che andrà meglio, l’ho deciso a pagina 5: «Son dei bei rompicoglioni, i filantropi». Ma non lo so.

Yasmina Reza, Felici i felici (traduzione di Maurizia Balmelli, Adelphi eBook, 2013). Una lettura temporaneamente lasciata in sospeso, per mancanza di forze ed evidente ingorgo di letture. Ho fiutato subito che quella della Reza è una voce da ascoltare in completo abbandono, nel tempo adatto a un’attenzione esclusiva.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Annalisa Di Salvatore


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