Il comodino di Emanuela D’Alessio
Barack Obama, durante lo shopping natalizio, ha comprato due libri: uno era La moglie di Jhumpa Lahiri. Anche io l’ho acquistato (per regalarlo a mia madre). Chissà se Obama lo ha letto. Io lo sto leggendo me temo che non avrò modo di confrontarmi con il presidente americano! Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer nel 2000, di origine bengalese ma cresciuta negli Stati Uniti, si è trasferita da un anno a Roma, perché ama la lingua italiana. E io amo la sua scrittura, elegante, intensa, dolente. Ho letto i suoi tre libri precedenti (pubblicati da Guanda): L’interprete dei malanni, L’omonimo e Una nuova terra. Tutti incentrati sul grande tema della doppia identità, sul conflitto profondo tra la cultura di origine e quella di arrivo, sul desiderio di abbandonare il paese della nascita (l’India) e sull’impossibilità di trovare una nuova terra (gli Stati Uniti). Storie di esilio e di perdita, di amori delusi o negati, di conflitti famigliari. Storie quotidiane di chi vive con smarrimento la nuova esperienza di emigrante, di chi lotta contro la diversità di un paese lontano ed estraneo, di chi dall’India non se ne è mai andato. Anche La moglie (Guanda, 2013. Trad. di Maria Federica Oddera) ripropone questo affresco, arricchito da una contestualizzazione storica. Ci si trova a Calcutta, infatti, negli anni dell’indipendenza indiana, delle prime sommosse guidate dal partito maoista alla fine degli anni Sessanta. I due fratelli Subhash e Udayan sono uniti da un legame indissolubile, nonostante la loro diversità. Subhash è silenzioso e riflessivo, Udayan è ribelle ed esuberante. Subhash decide di andare negli Stati Uniti per intraprendere una tranquilla carriera universitaria, Udayan diventa un militante maoista e prosegue la sua ribellione scegliendo di sposarsi per amore, contravvenendo alle tradizioni famigliari e culturali. Due percorsi diversi destinati a ricongiungersi quando Udayan viene ucciso dalla polizia e Subhash decide di tornare a Calcutta. Sto ancora leggendo, procedo lentamente come il ritmo della narrazione. Perché Lahiri non ha fretta, non travolge né incalza, scende piano in profondità. È il suo modo di scrivere. «Ho iniziato il libro sedici anni fa – racconta in un’intervista su Il Fatto Quotidiano del 13 gennaio 2014 – con la scena madre, in cui Udayan viene ucciso. È la prima cosa che ho scritto. Poi non sono più riuscita ad andare avanti. Sembrava una porta chiusa. Quindi ho messo le pagine in un armadio. Ho pubblicato gli altri tre e dopo dieci anni l’ho ripreso». Per Jhumpa Lahiri il processo di scrittura è un lavoro lungo, che richiede tutto il tempo necessario. «Non riesco a capire senza scrivere. Ho in mente una cosa, un’idea vaga, poi prendo qualche appunto o scrivo un paragrafo o descrivo una cosa: un viso, una vista, un sentimento, un’emozione. Poi però ci vuole un motore. Capisco che è giusto quando c’è un movimento, quando la storia si svolge. Allora è chiaro: se c’è un movimento che posso seguire, c’è un’energia, c’è qualcosa di inevitabile».
È stato inevitabile, nel frattempo, imbattermi in Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch (Del Vecchio, 2013. Trad. Paola Del Zoppo). In particolare dopo aver letto Camus e Frisch, tentativi di rivolta contro l’insensatezza dell’esistenza, il bell’articolo di Alessandra Melia sul sito dell’agenzia DIRE dedicato a questo racconto inedito dell’autore svizzero morto nel 1991. Non conoscevo Max Frisch e non amo affatto la montagna, ma queste due negazioni e l’analisi comparata dei temi di Frisch e di Albert Camus (suggerita nell’articolo) a proposito dell’insensatezza del vivere, della rivolta contro l’ordinaria esistenza, hanno reso irresistibile la curiosità. Ho iniziato a leggere Il silenzio, racconto giovanile scritto nel 1937 e ripudiato dall’autore. Frisch, come ho scoperto dalla postfazione al libro di Peter Von Matt, ha avuto una vita ricca e intensa, ha cambiato più volte scenario (poeta, scrittore, giornalista, architetto, soldato). Era un grande viaggiatore e scalatore esperto, ha avuto amicizie stimolanti (tra cui quelle con Brecht, Dürrenmatt e Ingeborg Bachmann). La lettura si è rivelata illuminante, fin dalla citazione iniziale dello stesso Frisch: «Lo scetticismo è la levatrice di una solida illuminazione e della conoscenza…Un essere umano che sia scettico nei confronti di sé stesso è di un grado più umano». Rarefatto come l’aria che si respira ad alta quota, solitario come il mattino, fresco e morbido come un guanto di seta che accarezza il volto. Sono queste le immagini che affiorano tra le pagine dense e lievi, di una scrittura lenta e costante come il passo di chi sale verso una vetta. Il viandante solitario che decide di scalare la Cresta del Nord (sulle Albi bernesi) ci porta con sé e con la giovane Irene in un viaggio interiore alla ricerca di una vita straordinaria dove si immagina ci sia la felicità come premio finale. Unico traguardo per cui valga la pena vivere, compiere un gesto estremo. «A un certo punto bisogna osare, grandi gesta o morte, perché una vita così lui non può e non vuole sopportarla». Sono molte le frasi che meriterebbero di essere riportate, ne aggiungo solo un’altra: «e se si fossero baciati, avrebbero saputo che quelli erano i primi e gli ultimi baci, e sarebbero stati baci come mai ce n’erano stati, parole come mai ce n’erano state, una felicità piena di addio che non avrebbe mai perso di significato, che non sarebbe mai sbiadita nella ripetizione, una notte che sarebbe esistita una volta sola e forse sarebbe per lei, per Irene, ancora di più, di più che un grande ricordo, forse il destino a cui è chiamata». Il libro si chiude con la Scatola nera del traduttore di Paola Del Zoppo.
Sul comodino c’è anche una lettura interrotta. È Lionel Asbo di Martin Amis (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto), la storia di un criminale da quattro soldi, rozzo e pericoloso, orgoglioso della sua stupidità e della sua ignoranza. Il cognome Asbo è l’acronimo di Anti-Social Behaviour Order, il decreto degli anni Novanta con il quale Tony Blair intendeva fermare i comportamenti antisociali. Lionel diventa milionario vincendo una lotteria, ma i soldi non migliorano la sua vita, ne esaltano solo la follia, gli eccessi, la volgarità, la spietata indifferenza. Soldi, pornografia, alcol e droga sono gli ingredienti dominanti di questa satira brutale, feroce, disperata, a tratti divertente, della società contemporanea. Gli stessi che Amis aveva utilizzato per scrivere Money (Einaudi, 1999), e già allora aveva detto tutto al riguardo (almeno per me). Molto meglio i suoi precedenti L’informazione (Einaudi, 1996) e Il treno della notte (Einaudi, 1997).
Con Città aperta di Teju Cole (Einaudi, 2013. Trad. di Gioa Guerzoni) proseguo il mio percorso nella letteratura africana, rinnovato in questi ultimi mesi con la lettura di Un giorno scriverò di questo posto di Binyavanga Wainaina (66thand2nd, 2013. Trad. di Giovanni Garbellini) e La bellezza delle cose fragili di Taiye Selasi (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto). Teju Cole è nato in Nigeria nel 1975 e vive a Brooklyn. Con questo libro di esordio ha vinto, tra gli altri, il PEN/Hemingway Award.
Per continuare, invece, a esplorare il tema del viaggio ho scelto Vertigini di W.G. Sebald (Adelphi, 2003. Trad. di Ada Vigliani), passaggio inevitabile dopo aver letto l’estate scorsa Gli emigrati (Adelphi, 2007). Sebald è un maestro dell’errare, non solo tra luoghi antichi e vicini ma anche tra i grandi del passato e la folla anonima dell’oggi.
Infine John Cheever, Tredici racconti (Fandango, 2011. Trad. di Leonardo G. Luccone) che apro quando ho bisogno di frammenti, brevi immersioni in quel «secondo mondo dentro questo mondo», per dirla con Fitzgerald. Quando Cheever morì nel 1982, il suo amico scrittore John Updike scrisse di lui: «Era impossibile stare con John Cheever per più di cinque minuti senza vedere qualche storia prendere forma: vecchi imbarazzi si intensificavano con straordinaria rapidità fino a diventare favole e, non appena Cheever faceva scorrere lo sguardo intorno a sé e strascicava poche e sorprendentemente concentrate parole con quella sua voce rapida e educata, ciò che ti circondava prendeva a pulsare con compassionevole magia» (dalla postfazione di George W. Hunt). Questi racconti, mai usciti prima in una raccolta, furono scritti tra il 1931 e il 1942 e offrono uno sguardo sui suoi anni di formazione. Cheever è stato un autodidatta, a diciotto anni fu espulso dal college per i suoi mediocri rendimenti. Come tanti altri all’epoca, Cheever rimase incantato dallo stile di Ernest Hemingway. Ecco un pezzo di Fall River, il primo racconto di questa raccolta: «La casa dove vivevamo si trovava sulla sommità di una rapida collina, il che ci permetteva di guardare in basso, verso le paludi salmastre e il grigiore del fiume che correva verso il mare. Era inverno, di neve neanche l’ombra, e per tutta la stagione le strade restavano polverose, il cielo pesante, e gli alberi avevano lasciato cadere a terra tutte le foglie. Ma il cielo rimase pesante e le strade polverose per altre tre settimane e, quando arrivò la primavera, della neve rimaneva solo un vago ricordo visto che ne era caduta così poca».
Qui gli altri comodini.