Il concetto di uguaglianza nei secoli

Creato il 04 dicembre 2012 da Cultura Salentina

Michelangelo Buonarroti: Tondo Doni (da Wikipedia)

Nel suo scritto “Utopia”,  Tommaso Moro espone il suo concetto di eguaglianza che si rivelerà  un po’ ingenuo, un po’ malinconico, certamente irrealizzabile. Ma  se vogliamo avere un’idea globale delle teorie sull’eguaglianza che  hanno caratterizzato i  secoli nel nostro mondo occidentale, dobbiamo tornare indietro negli anni fino a Platone, alla sua “Repubblica” che vedeva gli uomini nettamente distinti in tre categorie:

il popolo comune, i soldati ed i custodi. Nel suo “Dogma di Dio” egli ipotizza   che gli uomini  possano essere forgiati  in oro ed in questo caso saranno chiamati a diventare  custodi (i politici), in argento, adatti a fare i soldati e in ottone, nel qual caso verranno adibiti ai lavori manuali. Il suo senso di  giustizia vuole poi che ogni categoria non cerchi d’interferire con le altre in una visione del mondo statica, fissa, verticistica, oligarchica, plutocratica.

Non molto dissimile il pensiero del più dinamico Aristotele che in “Politica” demanda a pochi eletti il compito di governare le sorti dei paesi, lasciando la gran massa  degli individui in una posizione di secondo, terz’ordine. Nel corso dei secoli troveremo   altri filosofi che daranno loro ragione come, per esempio  Nietzsche, mentre  gli stoici, i cristiani, i democratici, i comunisti, si schiereranno su posizioni antitetiche seppure con motivazioni diverse: Gli stoici e  i cristiani diranno che l’ingiustizia sociale è di relativa importanza (beati gli ultimi che saranno i primi), i liberali  penseranno che i beni più importanti siano la libertà e la proprietà (a ciascuno secondo i propri meriti),  i comunisti che si debbano del tutto abolire le classi sociali esaltando appieno l’eguaglianza dei cittadini a prescindere dai loro meriti (a ciascuno secondo i propri bisogni).

Interessante notare come nella religione induista esista una divisione in caste che richiama appieno il pensiero di Platone.

Gli induisti infatti dividono l’umanità in tre categorie:

  • una casta degli uomini superiori rappresentata dai sacerdoti (brahamani), dai guerrieri (ksatriya ) e dai lavoratori qualificati (vaisya );
  • una  casta di uomini servili ( sudra);
  • una casta di impuri disprezzati e intoccabili (i paria);

Ad una casta si apparterrebbe per nascita e l’unico modo di sfuggire a una rigida collocazione gerarchica, sarebbe quello di essere premiati per una vita vissuta correttamente con una trasmigrazione dell’anima in  un essere di livello sociale superiore. Qui si chiama in ballo addirittura il trascendente per soddisfare appieno una giustizia sociale  basata anche sui propri meriti.

Inutile elencare i vari tentativi  di codificare in  regole universali i concetti di convivenza civile. Ci hanno provato, oltre ai già citati Platone e Aristotele, molti altri filosofi, da Hobbes a Locke, da Machiavelli a  Rousseau, da Voltaire a Stuart e Mill, da Bentham a Owen e tanti altri ancora, tutti protesi ad imbrigliare l’umanità  in comportamenti tali da soddisfare gli insegnamenti essenziali  della Bibbia, della Torah o del Corano.  Nomino i capisaldi delle religioni abramitiche, perché in essi, quando vengano sfrondati dalla vuota retorica che fa da deleterio contorno, emerge quel concetto di pacifica convivenza, che verrà magistralmente espresso dal laicissimo imperativo categorico di Kant: “Agisci in modo da poter desiderare che la massima della tua azione diventi norma universale.

Tale concetto  che racchiude in sé un principio veramente universale, potrebbe  essere semplicemente espresso dalla semplicissima formula:

Non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te”!

 


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