COSA DISTINGUE UN CAPRICCIO DA UN DOLORE? DOV’È LA LINEA DI DEMARCAZIONE?
Andiamo giù di qua, Isa. Per questa strada che facevo con Sarah. A volte chiedo permesso, la gente si scansa a fatica, forse si domanda dove mi conduca la fretta a quest’ora che riporta ogni chi nella propria dimora. È una primizia uscire la sera, così, pensare un percorso poi fare a gara col pensiero, diluirsi nelle ombre che si stancano, incrociare i coraggiosi che corrono nell’afa, tutta quella vita che si appresta a tornare nelle case, dietro a finestre accese, bocche sdentate che suggeriscono storie ai passanti, nel loro vociare.
Patrick piangeva. Ha protestato: “Perché vai sempre con lei?”
Non si ricorda dei nostri mille giri.
“Cammino veloce, amore.”
Veloce non basta.
Voleva venire, l’ho guardato nel suo sconforto e ho traballato nell’indecisione.
L’ho rassicurato: “Un’altra volta.”
Ho allacciato le scarpe, preso la porta e sono andata.
Cosa distingue un capriccio da un dolore? Dov’è la linea di demarcazione?
Era lì, il confine, sulla porta: tra una scarpa e l’altra che stavo allacciando, il portachiavi in mano e Isabelle già pronta, seduta, nel passeggino.
Il problema è sempre l’assoluto: il minuto che fa sembrare i miei bisogni egoismo anche quando non lo sono. Che dilata le sue lacrime in mare aperto. Ci vuole tempra per cavalcarlo, uscire. Per darmi il diritto di una pausa, per ricordare: un figlio che piange non significa necessariamente che stiamo sbagliando.
Ho sempre la coda di paglia, mia madre che mi dice “egoista”, e forse lo sono anche. E poi quella parola ti si tatua tra le mani, nelle cose che fai e in quelle che non fai. Le volte che dici di sì ai figli e credi di dimostrare qualcosa a te stessa. Quelle che dici di no, e allora lei c’aveva ragione.
Il problema è sempre l’assoluto.
Dovrei guardare a un minuto dopo, Patrick che probabilmente è già dentro una filastrocca delle sue, rime baciate con parole inventate. Poi nomi di città, percorsi della metro.
Scostarmi da quel brivido che rende tutto così irrimediabilmente profondo. E ti si incolla addosso nella colpa. Relativizzare.
Ma non è forse questo, che amiamo? Quell’assoluto bambino dei figli, capace di scalzare la naturalità prevedibile della ragione. Quella lente che per un istante dilata tutto fino alla meraviglia. Isola il dettaglio che sfugge al tuo sguardo comune. Travolge, inonda, sbaraglia e spodesta.
Perché è lo stesso, enorme, impacciato “assoluto”, che ora ci atterra, ora ci solleva.