Chi ha avuto la pazienza e la bontà di leggere attentamente quanto ho scritto nel saggio sulla piccola e media borghesia italiana dopo l’Unità d’Italia, si sarà reso conto che più che parlare delle circostanze che portarono il fascismo al potere, ho tentato di individuare e seguire le tendenze di “lunga durata”, che hanno permesso, nell’arco di tempo compreso tra l’epoca risorgimentale e l’avvento del fascismo, la coesione sociale dell’Italia. Nel secondo dopoguerra, il processo di integrazione del sistema viene garantito dall’espansione del mercato, che negli anni del cosiddetto “boom economico", conosce una fase di affermazione e di forte assestamento. La sensazione di benessere, che era mancata nella prima fase del processo di unificazione dell’Italia, comincia a diffondersi in tutti i ceti sociali, sebbene in misura diversa. Il mercato rappresenta la forma di integrazione come la politica e l’ideologia (o una loro forma combinata) lo sono stato in altre epoche. Ciò non vuol dire che, una volta affermatosi il mercato come forma di integrazione della società, le altre due istanze scompaiano completamente, vuol dire che non hanno più quella funzione prevalente che un tempo avevano. Praticamente, né la politica né l’ideologia sono più i “garanti” della tenuta sociale del paese. Entrambe, si potrebbe dire, rispetto al mercato svolgono una funzione “gregaria”. La politica, in particolare, svolge il compito, quando gode di un forte consenso, di regolatore del mercato, sia per quanto riguarda la politica contrattuale che quella fiscale. Tuttavia, la forte rapidità dell’affermazione del mercato ha accentuato il ruolo della ideologia, perché quella rapidità ha impedito una fase graduale di assestamento. L’Italia, fatte le dovute differenze, si è trovata nelle stesse condizioni dell’Età giolittiana, ossia della prima industrializzazione del paese. Superata questa fase di grandi rivolgimenti sociali, il paese, intorno, agli anni Ottanta ha conosciuto la vera “società dei consumi”: tutte le resistenze legate alle società tradizionali e che ancora impedivano l’affermazione piena dei consumi vennero spazzate vie. Il consumo, espressione finale del mercato, s’impone come forma reale di integrazione sociale. In altri termini, la filosofia di vita che s’impone in ogni strato sociale è improntata alle forme di consumo. Da questo punto di vista, l’ideologia di sinistra, che continuava a ispirarsi ad una tradizione ideologica “comunista”, e l’ideologia cattolica, fondata sui valori tradizionali della famiglia e della società, si trovavano a disagio in questi nuovi stili di vita che s’affermano. In particolare, l’ideologia comunista aveva nella produzione, ossia nel mondo del lavoro, la sua centralità, mentre quella cattolica l’aveva nell’etica del risparmio (pensiamo a tutte le “casse rurali” nate all’inizio del XX secolo). Il “consumo” da queste ideologie viene ancora percepito, per usare l’espressione del sociologo americano Thorstein Veblen, come “uno spreco vistoso”, quando, invece, da ciascun ceto il consumo incomincia ad essere percepito come momento di una vera “promozione” sociale. La crisi della sinistra e delle aree di ispirazione cattolica coincide, in Italia, verso la metà di quegli anni, e giunge a compimento nella metà degli anni Novanta, quando ormai si è avviato un processo di rinnovamento non ancora conclusosi. L’incontro che s’era avuto intorno alla metà degli anni Settanta, tra le due tradizioni, finisce tragicamente con l’assassinio di Aldo Moro. Dopo quella tragica esperienza le forze politiche nuove che emergono sono proprie quelle che non hanno alcuna remora nei confronti dei consumi. Possiamo in effetti parlare a proposito di questa fase storica di una vera e propria “americanizzazione” della società italiana. Ancora una volta, mediante i consumi, avveniva in Italia un processo storico che Gramsci avrebbe definito di “rivoluzione passiva”. A farsi il maggior interprete di questa “rivoluzione passiva” è stato, intorno alla metà degli anni Novanta, in piena crisi del sistema politico, il magnate delle telecomunicazioni Silvio Berlusconi: non è un caso che negli anni Ottanta siano state proprie le sue tv commerciali a contribuire all’americanizzazione della società italiana. La forza politica che nel giro di poco tempo riuscì a mettere in campo aveva come bersaglio politico-ideologico proprio quell’aggregato di ideologie che aveva trovato nell’esperienza del “compromesso storico” la sua sintesi, e che egli stesso percepiva come un coagulo di forze che s’opponeva all’espansione vistoso del consumo, chiave del suo successo economico. Contemporaneamente il processo di globalizzazione fece emergere al Nord del paese una forza localistica, che prese il nome di Lega Lombarda, e che divenne espressione di quei ceti sociali ed imprenditoriali che più temevano gli effetti provocati dalla globalizzazione nel tessuto sociale: la forte competitività internazionale e l’immigrazione. Questa forza ha trovato la sua area di consenso nella “critica” al processo risorgimentale: l’unificazione del paese viene interpretata come un processo forzato e imposto dall’alto delle classi dirigenti del tempo. Si capisce che alle piccole imprese dei “distretti industriali” della “Terza Italia”, secondo la definizione del sociologo Bagnasco, il mercato interno interessa sempre di meno; la vera sfida è rappresentata dai mercati esteri. I problemi del Mezzogiorno d’Italia e la crisi della grande impresa fondata sul modello fordista e posfordista vengono visti sempre più come ostacoli al processo di innovazione del paese, che, nella loro ottica, fa perdere punti di competitività al commercio del Nord-Est. Infatti, questo movimento politico comincia ad espandersi in altre aree del paese man mano che vengono colpite dalla crisi internazionale. Crescita dell’esportazione e crescita della Lega sono due fenomeni strettamente intrecciati. Possiamo dire che l’alleanza tra chi vuole una forte società dei consumi e chi mira a una forte espansione dei propri prodotti all’estero si salda proprio sulla base di questi reciproci interessi. Quindi, le due forze politiche che oggi guidano il paese sono entrambe espressioni dell’“ideologia del mercato”, il primo sul lato dei consumi, il secondo su quello della distribuzione. Si comprende che ciò che resta fuori da questa lotta politica sono quelle forze, soprattutto di sinistra, che invece avevano cercato di interpretare ed esprimere le istanze suscitate dalla produzione. Nello stesso momento in cui la produzione, in virtù del processo di globalizzazione, viene dislocata altrove, perdendo così la sua centralità all’interno del mercato, anche quelle forze che si richiamano ad essa cominciano ad essere sempre più marginali.
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